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“Il teatro è un diritto e un dovere per tutti. La città ha bisogno del Teatro. Il Teatro ha bisogno dei cittadini” (P.G.)

Credo di poter affermare che, fin dalla nascita dello Stato italiano, il teatro non abbia mai goduto del favore delle alte sfere della politica.

Già a partire dal periodo appena successivo al Risorgimento, infatti, il teatro veniva considerato come una qualsiasi altra attività commerciale e purtroppo, a oggi, la situazione non è mutata di molto.

Il teatro italiano si è trovato ad arrancare nel più completo disinteresse da parte della politica fino al 1921, quando hanno iniziato ad arrivare i primi contributi pubblici.

È solo durante il Ventennio Fascista che il teatro sembra trovare una sua collocazione: lo Stato infatti, attraverso strumenti quali la censura, decide di disciplinare in maniera capillare le produzioni, facendo rientrare il mezzo teatrale tra i metodi più efficaci di propaganda.

I primi presupposti per un sostegno pubblico sembrano divenire realtà nel 1947, a seguito dell’inaugurazione a opera di Giorgio Strehler e Paolo Grassi del Piccolo di Milano, “Teatro d’arte per tutti”.

Questo primo accenno di progresso resta tuttavia solo fumo negli occhi: a partire dal 1949 si inaugura in Italia un lungo periodo denominato “era delle circolari”, che si chiuderà soltanto nel 1999, durante il quale il sostegno all’attività teatrale consisteva in circolari di durata annuale recanti le caratteristiche necessarie per poter usufruire dei finanziamenti pubblici. Questi documenti, proprio a causa della loro durata annuale, non permettevano di lavorare su obiettivi duraturi e su progetti di ampio respiro.

L’unico orizzonte a cui i lavoratori del settore potevano permettersi di guardare era la pubblicazione della circolare dell’anno successivo.

Il 1985 è stato un altro specchio per le allodole. Quando venne istituito, il FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo), doveva essere un fondo pubblico da cui attingere i finanziamenti da destinare alle attività culturali di spettacolo dal vivo. Dico specchio per le allodole perché anche questo escamotage non ebbe mai vita facile, rimanendo vittima delle costanti oscillazioni di capitale che non permettevano nemmeno in questo caso il raggiungimento di obiettivi stabili di anno in anno.

In tutto questo periodo intanto ci si rendeva sempre più conto della necessità di una legge organica che regolasse il settore dello spettacolo una volta per tutte. Sebbene questa necessità stesse diventando sempre più importante non si giunse mai a un accordo. Fallirono nell’intento anche Giorgio Strehler e Willer Bordon, autori nel 1988 di un progetto legge fra i più autorevoli mai realizzati in questo ambito.

A seguito della crisi del 2008 le cose non sono certo migliorate. In special modo per il teatro di prosa. Oltre il crollo della spesa pubblica per la cultura, i criteri per accedere ai finanziamenti del FUS sono diventati sempre più selettivi, e il teatro in prosa tra le tante categorie è stato quello che ha registrato la maggiore contrazione degli stanziamenti (-22,9% nel 2014). (Mimma Gallina, Ri-organizzare teatro)

Due degli ultimi governi, il Governo Letta (2013) e il Governo Renzi (2014) hanno provato a mettere mano nell’intricato mondo della legislazione dello spettacolo, arrivando a due risultati utili, ma sicuramente non definitivi.  I decreti Valore Cultura (2013) e Nuovi Criteri (2014), nonostante le promesse iniziali, sono stati fiamme che si sono presto consumate.

Viene quindi da chiedersi come sia possibile che una delle forme artistiche più antiche al mondo sia diventata il fanalino di coda delle preoccupazioni politiche contemporanee.

Ritengo di poter dire che siamo di fronte a una grande sottovalutazione del teatro. Da parte di chi invece dovrebbe insistere sul suo valore. È in periodi come questo che bisognerebbe investire maggiormente sul teatro, non solo in quanto mezzo di svago, ma soprattutto per la sua importante funzione sociale.

In un momento di grande incertezza come quello attuale il teatro potrebbe aiutarci a indagare noi stessi e la nostra realtà, e magari aiutarci ad avere un quadro più chiaro della situazione. È di questo che la politica sembra non rendersi conto, dell’immenso potenziale sprecato del teatro contemporaneo, ormai più preoccupato di compilare bandi e leggere circolari che di lavorare sulla sua arte.

“La politica non ha mai capito il teatro, non si rendono conto di sovvenzionare la vita. Come gli architetti, che costruiscono teatri brutti, senza acustica, perché non hanno la cultura per sapere che il teatro è la cosa più importante inventata dall’uomo, il paradigma di ogni attività umana” (Gabriele Lavia)

Il teatro alla radio

Ce qui est grave, est que nous savons qu’après l’ordre de ce monde il y en a un autre. Quel est-il ? Nous ne le savons pas” [Quello che è grave, è che noi sappiamo che dopo l’ordine di questo mondo ce n’è un altro. Quale? Non lo sappiamo.] (Antonin Artaud, Pour en finir avec le jugement de Dieu)

Per concludere il ciclo di articoli dedicati ad Artaud e all’avanguardia francese ho pensato di parlare dell’ultimo lavoro di questo artista: il progetto per un programma radiofonico.

Pour en finir avec le jugement de dieu è stato ideato, scritto e registrato da Artaud fra il 22 e il 29 novembre 1947, e avrebbe dovuto essere mandato in onda dalla RDF (Radio diffusion Française) il 1 febbraio 1948. Oltre a essere l’ultimo lavoro, questo è stato anche l’ultimo fallimento di Artaud: il programma, infatti, a causa dei contenuti, non venne mai diffuso.

Sebbene concepito come un programma di radiodiffusione, questo testo mantiene le caratteristiche tipiche delle opere teatrali artaudiane, collegabili in particolar modo all’ultima fase dell’elaborazione artistica di Artaud.

L’opera è divisa in cinque parti, lette e interpretate da quattro voci, due maschili e due femminili. L’introduzione è letta dallo stesso Artaud, così come la conclusione.

Il tema trattato nell’introduzione è una forte e tagliente critica alla società americana, accusata di imperialismo e di essere disposta a tutto pur di rafforzare i propri possedimenti intorno al globo.

L’interpretazione della seconda parte è affidata a Maria Casarès, attrice e grande amica di Artaud. Il testo da lei letto si intitola “La dance du Tututguri” e parla dell’esperienza del peyotl (una radice allucinogena usata dalla tribù dei Tarahumara in Messico che Artaud aveva sperimentato in occasione del suo viaggio in quelle terre) in chiave totalmente negativa, riallacciandosi all’abiura di Artaud e alla suo credere nell’esistenza di un complotto mondiale ordito contro la sua persona.

Questo è uno degli episodi più controversi della biografia artaudiana: egli aveva sempre amato moltissimo ed era rimasto estremamente legato alle esperienze fatte durante il viaggio in Messico. Il giro di boa era avvenuto durante gli anni dell’internamento: egli era giunto alla conclusione che non esistesse nessun tipo di magia, nessun tipo di iniziazione possibile per eventi legati al soprannaturale. E che insomma il soprannaturale non fosse in realtà che un’invenzione di quegli stessi stregoni che lo avevano imbrogliato con le loro tradizioni e gli avevano fatto credere di essere stato iniziato a qualcosa che in realtà non esisteva. Da qui quindi l’esigenza di rileggere l’intera esperienza vissuta presso i Tarahumara con un’ottica completamente negativa, quasi fosse, anch’essa, un ulteriore fallimento.

Il terzo testo veniva letto da Roger Blin, e si intitolava “La recherche de la fecalité”. A prestare la voce al quarto testo era invece Paule Thévenin, l’unica non-attrice del gruppo.

La conclusione, come già detto, era letta da Artaud, ed è qui che egli giungeva alla teorizzazione del corpo senz’organi e della nuova funzione del teatro.

“L’homme est malade parce qu’il est mal construit” [L’uomo è malato perché è mal costruito] (Antonin Artaud, Pour en finir avec le jugement de Dieu)

Come in tutti i lavori di Artaud successivi all’internamento, anche in questo emergono alcune tematiche fondamentali e ricorrenti. Prima di tutto si fa qui evidente la ricerca metodologica portata avanti da Artaud in quegli anni, che affermava l’importanza di una serie di nuove tecniche vocali ma non verbali come glossonalie, xilofonie verbali e xilofonie strumentali: tutte le parti interpretate sono infatti intervallate da questi esercizi vocali, che possono andare dal semplice urlo a una modulazione vocale più strutturata, che tuttavia restano totalmente privi di senso e di musicalità, ma che rappresentano la grande novità introdotta da Artaud in questa ultima fase del suo lavoro. Ritorna poi il tema fondamentale di quegli anni: la malattia insita nell’uomo suo contemporaneo e la ricerca di un nuovo mezzo di salvezza.

Per l’ultima volta e in modo ancora più concreto Artaud afferma qui di aver trovato la cura a questa epidemia che contagia la società mondiale: il teatro.

Negli ultimi momenti della parte conclusiva dell’opera egli teorizza la creazione di un corpo senz’organi, a suo parere l’unico modo per salvare e liberare gli esseri umani e la società intera dalle patologie da cui erano affette. Artaud afferma qui che un corpo senza organi significherebbe un corpo libero, senza automatismi, capace finalmente di trovare la sua strada e il suo posto.

“Lorsque vous lui aurez fait un corps sans organes, alors vous l’aurez délivré de tous ses automatismes et rendu à sa véritable liberté. Alors, vous lui réapprendrez à danser à l’envers, comme dans le délire des bals musettes, et cet envers sera son véritable endroit” [Quando gli avrete fatto un corpo senz’organi, allora l’avrete liberato da tutti i suoi automatismi e reso alla sua vera libertà. Allora, voi gli rinsegnerete a danzare alla rovescia, come nel delirio dei balli popolari, e questo rovescio sarà il suo vero posto] (Antonin Artaud, Pour en finir avec le jugement de Dieu)

Pour en finir avec le jugement de Dieu:

 

“Dichiaratamente o no, consciamente o no, ciò che in fondo il pubblico cerca nell’amore, nel delitto, nelle droghe, nella guerra o nell’insurrezione è uno stato poetico, una trascendente esperienza vitale” (Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio)

La Crudeltà a Teatro è un concetto fondamentale quando si parla di Artaud.

Egli ha continuato a sviluppare questa teoria per buona arte della sua vita, a partire dai primi anni ’30 fino alla morte, nel 1948. Il suo Teatro della Crudeltà – così viene definito – si può dividere il due fasi: il Primo Teatro della Crudeltà, sviluppatosi negli anni ’30 e il Secondo Teatro della Crudeltà, teorizzato in seguito alla reclusione presso due ospedali psichiatrici, prima a Parigi e in seguito a Rodez.

Ho scelto di soffermarmi qui sul Secondo Teatro della Crudeltà, in quanto ritengo che in questa seconda fase Artaud abbia raggiunto livelli di consapevolezza estremamente alti e complessi, sul teatro e su sé stesso, che sarebbe utile riprodurre anche nel teatro contemporaneo.

Come nel caso del Primo Teatro della Crudeltà, anche in questo secondo momento Artaud scrive e pubblica un Manifesto, nel quale descrive i suoi obiettivi, i suoi progetti, parla dei mezzi e delle modalità che vorrebbe utilizzare, dei risultati cui vorrebbe giungere.

Il tutto senza risparmiare un’acuta critica al teatro e alla società del suo tempo.

Ciò che muove Artaud nella teorizzazione di questo Secondo Teatro della Crudeltà sono primariamente le esperienze di cui è stato vittima durante i 9 anni di internamento. In particolare, egli si è convinto dell’esistenza di un complotto mondiale ordito contro di lui e che aveva causato il suo ingiustificato internamento. Ancora più che in altri suoi lavori, in questo Manifesto Artaud esprime il bisogno di una rifondazione del teatro su basi nuove e che tuttavia guardino al passato, all’autenticità ormai andata perduta di un teatro che sta scomparendo sotto il peso del cinematografo e delle nuove tecnologie.

Il Manifesto artaudiano è diviso in due parti distinte: la prima relativa al contenuto, la seconda relativa alla forma.

In questo saggio Artaud descrive la cifra stilistica del suo lavoro: quello che vuole creare è un teatro che si occupi della contemporaneità, dei problemi degli uomini e delle donne del suo tempo, un teatro che possa curare le anime e i corpi, ma al tempo stesso che per fare ciò non usi i mezzi propri del suo tempo ma guardi a mezzi antichi, presi dalle culture orientali ancora legate a tradizioni quasi ancestrali.

Questa tecnica dovrebbe, secondo Artaud, permettere alla cultura teatrale di non scomparire sotto la sempre maggiore forza dei nuovi media.

Un tema molto caro ad Artaud e che viene qui ripreso è l’uso della parola a teatro e la funzione che essa ha o può avere. In particolare, la critica che Artaud muove al teatro del suo tempo è quella di basarsi troppo sulla parola, di renderla l’unica e vera protagonista e di lasciare in disparte tutto il resto. Artaud, pur essendo convinto dell’importanza di testo e parola a teatro, teorizza una forma spettacolare basata più su ciò che fisicamente avviene in scena, sulla presenza degli attori, sulla loro espressività, su ciò che il pubblico vede e percepisce.

La parola in questo modo non è più il punto cardine dello spettacolo, ma diventa un mezzo, al pari di luci e movimenti.

Artaud inoltre teorizza la creazione di spettacoli in cui non vi sia alcun tipo di divisione tra attori e pubblico. Lo spettacolo, secondo Artaud, dovrebbe svilupparsi non davanti agli spettatori, ma in mezzo a questi. Per questo scopo egli teorizza la scomparsa della scena come veniva concepita allora: non più palcoscenico, non più costumi, non più scenografia, ma solo presenza: presenza di attori che si muovono in mezzo al pubblico, presenza di luci e suoni in grado di veicolare i sentimenti dagli e agli spettatori, presenza infine degli spettatori stessi che, accerchiati dallo spettacolo, entrano a farne parte al pari degli attori e delle luci, vivendo quasi un’esperienza mistica, o, in ogni modo, totalizzante.

Un teatro, quello teorizzato da Artaud, che abbia la capacità di

“rendere attuali gli antichi conflitti”.

Un teatro che diventa cura attraverso la presenza e la partecipazione emotiva degli spettatori, che sono qui chiamati a sentire lo spettacolo a cui partecipano. Il loro sarà non una partecipazione asfittica, mediata da una quarta parete, ma una partecipazione vera, reale, autentica, che gli lasci qualcosa, che arrivi a cambiarli, a modificare ciò che sono e il loro modo di vedere e approcciarsi al mondo.

Un teatro insomma che non sia spettacolo, ma cura. Cura per il singolo così come per il gruppo; per l’attore così come per lo spettatore o il regista.

Un teatro, infine, in grado di rifondare quella stessa società di cui fa parte in modo da poter contrastare le nuove malattie dello spirito e del corpo divenute ormai epidemiche.

Ritengo che la nuova necessità manifestata da Artaud di creare un teatro utile ed efficace sia nata primariamente dai suoi stessi bisogni, dal suo volersi curare e dal suo aver trovato una cura in quello stesso teatro con cui aveva avuto un rapporto estremamente conflittuale per tutta la vita.

“Così composto e così costruito, lo spettacolo, grazie alla soppressione della scena, si estenderà alla sala intera del teatro, e, partito dal suolo, si arrampicherà sui muri mediante leggere passerelle, avvolgerà fisicamente lo spettatore, lo terrà in un’atmosfera ininterrotta di luce, di immagini, di movimenti e di rumori. La scena sarà costituita dai personaggi stessi, cresciuti sino alle dimensioni di giganteschi fantocci, e da paesaggi di luci mobili, agenti su oggetti e maschere in continuo spostamento” (Artaud, Il Teatro e il suo doppio)

“La più grande debolezza del pensiero contemporaneo mi sembra risiedere nella sopravvalutazione esagerata del conosciuto rispetto a ciò che rimane da conoscere” (André Breton)

Spesso quando si parla di avanguardia si pensa a un gruppo di pazzi con idee bizzarre, non interessati alle regole della società civile che lottano (spesso nel vero senso del termine) per affermare le loro strambe teorie.
Esiste, o almeno credo, la possibilità che dietro ci sia dell’altro.

Se parliamo di avanguardia a teatro il primo luogo a cui penso è senza dubbio la Francia del periodo tra fine ‘800 e inizio ‘900, patria di alcuni fra i più importanti avanguardisti Novecenteschi, da André Antoine e André Breton fino a Jacques Copeau e Charles Dullin.

Un risultato – a mio parere il più importante – a cui si è giunti grazie all’avvento delle avanguardie e che vale la pena citare è l’invenzione della regia.

La data simbolica della nascita della regia è il 1899, e colui che viene designato come inventore di questa immensa novità è il ginevrino Adolphe Appia.
In verità le cose sono un po’ più complesse: la regia non è stata inventata dall’oggi al domani con una dissertazione teorica, ma è il risultato di un lungo processo iniziato nel corso dell’800 con la Compagnia dei Meininger, portato avanti dal Teatro d’Arte di Stanislavskij e finalmente giunto a compimento – o pieno riconoscimento – con il lavoro di Appia.

Vero è che l’idea di un controllo di ciò che viene messo in scena è un concetto precedente, ma la figura del regista compie qui un salto avanti: il regista non è soltanto colui che regola le entrate, le uscite e le posizioni da tenere sul palcoscenico, ma una figura che ha il potere di dare un’interpretazione, di guidare gli attori nel modo in cui recitano, che insomma ha il compito di creare un’opera d’insieme, di cui egli controlla tutte le sfumature.

Avanguardia tuttavia non è soltanto questo: avanguardia significa anche nascita di pensieri, sviluppo di idee e tecniche che porteranno alla rifondazione del teatro su basi valide ancora oggi.
Si può citare tra queste la rivoluzione della scenografia – che da ora in poi sarà costruita e non dipinta – operata da André Antoine, oppure le concezioni dello stesso Appia che afferma l’importanza della musica e di un uso poetico della luce nella costruzione dello spettacolo.
Avanguardia, poi, è anche nascita di gruppi, come ad esempio il Dadaismo (1916) del ginevrino Tzara e il Surrealismo (1924) del francese André Breton.
Quest’ultimo è stato anche, almeno nella prima parte della sua esperienza con i surrealisti, un fautore del mezzo teatrale: il gruppo accoglieva infatti uomini di teatro del calibro di Artaud e Roger Vitrac, autore tra l’altro di uno dei primi spettacoli surrealisti, e forse il più importante.

Victor ou les enfants au pouvoir viene messo in scena per la prima volta il 24 dicembre 1929 alla Comédie des Champs-Elysées, con la regia di Artaud e gli attori della compagnia del Teatro Alfred Jarry. La storia narrata nella pièce è semplice quanto bizzarra: è il compleanno di Victor, bambino di 9 anni alto 1,90.
Durante la festa di compleanno, cui partecipano la famiglia di Victor e quella di un’amica del ragazzo, vengono alla luce retroscena imbarazzanti riguardanti relazioni extraconiugali che porteranno anche al suicidio di uno dei personaggi.
Il vero intento della pièce – in puro stile surrealista – è sferrare un attacco alla società borghese colpendola nei suoi punti nevralgici: famiglia, Stato e religione. Lo stesso Victor rappresenta nelle intenzioni di Vitrac un prodotto della borghesia: è una storpiatura che la società tutta tenta di nascondere sotto una parvenza di normalità.

Credo di poter affermare che l’Avanguardia non sia stata solo un movimento guidato da pazzi, ma un vero e proprio trampolino che ha portato a un’innovazione sentita e necessaria.

Nata in un periodo tutt’altro che facile per la storia dell’Europa, l’Avanguardia si è assunta il compito di trovare una risposta ai nuovi interrogativi e alle nuove problematiche che venivano pian piano ponendosi. Il fatto di trovarsi in un periodo particolare, caratterizzato da paure e incertezze non sperimentate prima ha spinto i gruppi d’avanguardia a ricercare nuovi metodi, nuovi percorsi per esprimere nuovi sentimenti e per combattere attraverso l’arte il nulla che vedevano nella società a loro contemporanea.

Certo, i risultati, spesso estremamente bizzarri e grotteschi, possono piacere o no. Credo tuttavia che per quanto riguarda questo movimento l’importante non sia tanto il risultato, quanto il processo.

Un processo che ha spinto gli artisti a voler rifondare l’arte, a volte affermandone l’inutilità, altre invece il potere salvifico; alle volte volendo distruggere o dimenticare quanto era stato fatto fino a quel momento, altre cercando di giungere all’ammodernamento del classicismo, altre ancora cercando di tornare all’età medievale.

Risposte giunte al momento giusto, che hanno portato non tanto alla nascita di un movimento unitario, ma al proliferare di esperienze che hanno rifondato il settore artistico portandolo a livelli nuovi, impensabili fino a vent’anni prima, ma necessari per interpretare una società europea sull’orlo dello sgretolamento e del collasso.

“C’è un rischio, indubbiamente, ma ritengo che nelle circostanze attuali valga la pena correrlo. Non credo si possa arrivare a ridar vita al mondo in cui viviamo, e non credo neppure che valga la pena aggrapparsi ad esso; ma propongo qualcosa per uscire dal marasma, invece di continuare a gemere sul marasma, e sulla noia, l’inerzia e la stupidità di ogni cosa” (A. Artaud, Il teatro e il suo doppio)

Il 4 marzo 1948 ci lasciava quello che a parere mio è stato uno dei più importanti personaggi della scena teatrale della prima metà del Novecento, Antonin Artaud.

Definito da Barrault l’“uomo-teatro”, Artaud ha dedicato la sua intera esistenza a questa disciplina, dando un contributo fondamentale al modo in cui il teatro viene oggi concepito, messo in pratica e studiato. Egli è stato attore, drammaturgo, regista, scrittore, disegnatore, uomo di cinema, viaggiatore e antropologo. Per dirla in parole brevi Artaud è stato un artista a tutto tondo, che ha provato, sperimentato, e soprattutto cambiato idea.

Nato il 4 settembre 1896 a Marsiglia, all’età di 4 anni Artaud venne colpito da una grave forma di meningite che avrebbe poi compromesso la sua vita futura. Nel 1920, a seguito del trasferimento a Parigi, Artaud inizia a frequentare l’élite culturale dell’epoca. Egli si lega in special modo al gruppo Surrealista guidato da André Breton. Con loro Artaud inizia a lavorare alla sua personale visione di teatro mettendo in scena tra l’altro i primi spettacoli teatrali surrealisti, tra cui Victor ou les enfants au pouvoir e collaborando alla creazione del primo film del gruppo, La conquille et le clergyman (1928) anticipando i maestri del genere, Buñuel e Dalì. La sua avventura nel movimento surrealista tuttavia non dura a lungo: le sue opinioni, parecchio divergenti da quelle di Breton, portano a una travagliata rottura, consumatasi sulle pagine dei pamphlets scritti da entrambi per sancire la rottura.

In particolare, Artaud si opponeva alla visione del “gran sole dell’avvenire” profetato dal partito comunista, preferendo parlare della “grande notte” che stava colpendo la società occidentale.

Per tutta la sua vita Artaud si è dimostrato una persona rotta da insanabili contraddizioni che lo hanno portato a non fermarsi mai, a progredire sempre nel suo percorso artistico, ad andare oltre nonostante tutte le avversità che gli si sono presentate.

Ed è proprio forse nella sua contraddittorietà che egli ha trovato la sua forza, il motore che lo spingeva ad andare avanti. Egli viveva in un mondo a suo parere giunto al capolinea, insalvabile, che non avrebbe portato a nulla, e ritengo che sia stato proprio questo a spingerlo a perseverare nei suoi tentativi, anche se fallaci.

Immerso in una società che ha perso i punti cardinali, che non sa da che parte andare e che probabilmente sta spingendosi troppo avanti quando l’unica cosa di cui avrebbe bisogno sarebbe fare alcuni passi indietro, Artaud ha creduto di poter avanzare nella direzione a suo parere corretta non rispettando le regole che venivano imposte.

“Ma è evidente ora da troppi indizi che tutto ciò che ci faceva vivere non regge più, che siamo tutti pazzi, disperati, malati. E io ci invito a reagire” (A. Artaud, Il teatro e il suo doppio)

Dalla fine degli anni ’30 fino alla morte, ciò che più ha segnato la vita di Artaud è stata la malattia. Nel 1937, al ritorno da un viaggio in Irlanda, egli venne internato in un ospedale psichiatrico di Parigi, dove restò confinato per quasi tutti gli anni della Seconda Guerra Mondiale. Solo sul finire della guerra egli riuscì a farsi trasferire in un ospedale psichiatrico nel sud del Paese, a Rodez, dove poté finalmente ricominciare un’esistenza vicina alla normalità. Durante gli anni di internamento Artaud si convinse dell’esistenza di un complotto mondiale ordito contro di lui, che matto non lo era mai stato, semmai eccentrico, irrispettoso dei canoni, ma che mai si era spinto al di là di qualche bravata in pubblico.

Questa idea del complotto incise in maniera molto forte sul pensiero e sul lavoro che egli fece una volta giunto a Rodez.

Nella sua ultima lettera, scritta il 24 febbraio 1948, Artaud lascia la sua ultima immagine, quella di un teatro utile e necessario, che a ogni rappresentazione deve lasciare qualcosa a livello corporeo a chi lo guarda e a chi lo fa, un teatro che non imita la vita, ma la fa, la crea. Sempre in questa lettera Artaud promette di lasciare perdere tutto quanto, e di dedicarsi solo ed esclusivamente al teatro.
In realtà non riuscì a rispettare questa sua promessa. Egli morì circa una settimana dopo, il 4 marzo 1948. Venne ritrovato seduto, di fronte al letto, con una sua scarpa in mano.

Quello che a mio parere viene troppo spesso messo da parte quando si parla di Artaud è la poesia che irradia dalla sua figura e dai suoi testi. La poesia di un uomo reale, sebbene non comune. La poesia che nel suo caso scaturiva da una contraddizione, dal suo non voler scegliere una sola prospettiva da cui guardare le cose, dal restare sempre aperto a nuovi stimoli. La poesia che derivava anche dal tipo di vita che conduceva, quel suo continuo sfidare le regole e i limiti imposti, quel suo voler essere oltre, sempre, anche dopo il manicomio.

Se penso ad Artaud mi viene in mente l’immagine di un uomo che cammina per le strade di Parigi, con il bastone in mano, che passa davanti ai café dei letterati, alle volte, perché no, insultandoli.

Un uomo all’apparenza come tanti, del quale, tuttavia, si nota quasi inavvertitamente il portamento, principesco, regale, che nella prima parte della sua vita gli aveva permesso di interpretare ruoli da re in diverse produzioni. E tuttavia una regalità in contrasto con il suo reale stile di vita, povero, quasi indigente.

Spesso quando si parla di Artaud si parla di “doppi” (scrittore, pittore, uomo di cinema…), ma a mio parere oltre a questi ne esiste un altro, ed è l’Artaud sognatore, che ha lottato tutta la sua vita per affermare la rivoluzione in cui credeva. Una rivoluzione che doveva originarsi dal e nel teatro. Un Artaud utopista, nonostante tutto.

Una delle ultime immagini che Artaud ha lasciato prima di morire è quella del “corpo senza organi”, di un corpo cioè liberato da tutti gli automatismi di cui è vittima.

Trovo rilevante il fatto che questa immagine nasca dopo gli anni di internamento, perché dimostra quello che, a seguito di tante sofferenze, era forse l’ultimo e forse più complesso progetto di Artaud: liberare l’uomo da tutto, perfino da sé stesso. Riportarlo a livelli di libertà che gli avrebbero permesso di rimparare a muoversi, a danzare finalmente libero, come lui non è mai stato.

“Quando gli avrete fatto un corpo senza organi voi l’avrete liberato da tutti i suoi automatismi e reso alla sua vera libertà. Allora voi gli rinsegnerete a danzare alla rovescia come nel delirio dei balli popolari, e questo rovescio sarà il suo vero posto” (A. Artaud, Pour en finir avec le jugement de Dieu)

Credo sia giunto il momento di concludere il discorso che è stato fatto finora, e ho pensato di farlo parlando di due esempi di compagnie italiane che sono state in grado di presentare i loro spettacoli e i loro progetti all’estero, anche se in contesti molto diversi fra loro, per periodo e luogo di svolgimento.

Il primo esempio di cui vorrei parlare è un progetto portato avanti tra il 2002 e il 2004 dalla Societas Raffaello Sanzio.

Ideata e diretta in ogni sua parte da Romeo Castellucci, Tragedia Endogonidia, questo il nome del progetto, si compone di 11 spettacoli, ognuno indipendente dal precedente e dal successivo, realizzati in 10 tra le più importanti città europee. Il tema comune che caratterizza questa serie di spettacoli è il racconto della storia di eroi del nostro tempo.

Eroi tragici dunque, senza possibilità di redenzione, rinchiusi nella loro solitudine e nell’impossibilità di comunicare, di essere salvati – o quantomeno capiti – da nessuno.

Per questa ragione Tragedia Endogonidia può essere considerata come una “tragedia del linguaggio” (Maria Cristina Reggio, Ipotesi di un ascolto tragico), in cui l’incomunicabilità diventa il filo rosso che lega gli Episodi.
Gli 11 Episodi di cui si compone Tragedia Endogonidia non hanno un titolo, se non la lettera iniziale della città in cui nascono e un numero progressivo:

#01 Cesena #07 Roma
#02 Avignon #08 Strasbourg
#03 Berlin #09 London
#04 Bruxelles #10 Marseille
#05 Bergen #11 Cesena
#06 Paris

Gli Episodi non traggono spunto da un testo, ma da un luogo. (Maria Cristina Reggio, Ipotesi di un ascolto tragico) Gli attori della Societas sono riusciti in questo modo a creare un legame molto stretto tra ogni Episodio e la città in cui veniva messo in scena, perché proprio da questa lo spettacolo si originava. Come afferma Maria Cristina Reggio nella sua analisi del ciclo di spettacoli:

“[…] i suoi autori hanno voluto mettere alla prova il sistema della rappresentazione teatrale come luogo nel quale ripensare la tragedia, ipotizzando un teatro portatore di un significato definibile come tragico, proprio nell’epoca contemporanea in cui si è presa distanza da una concezione del mondo fondata sul mito, sul destino e sulla colpa.”

Una Tragedia che parla del nostro tempo, delle problematiche quotidiane e comuni derivanti dall’impossibilità sempre più marcata di comunicare con gli altri. Una Tragedia di frantumazione, dove gli eroi non possono affermare la propria unità, la propria soggettività proprio a causa del loro isolamento. Una Tragedia che tuttavia si gioca sul controsenso dell’eroe solo che è portato a riprodursi continuamente per forza endogena.

Credo che con questo ciclo di spettacoli la Societas abbia dimostrato una lungimiranza molto marcata nel trattare una problematica che, sebbene già presente nel biennio 2002-2004, avrebbe raggiunto il suo apice solo una decina di anni più tardi.

E ora possiamo dire che la profezia della Tragedia si è avverata, e ormai siamo tutti eroi tragici che tentano di affermare la propria soggettività in un mondo incapace di ascoltare.

Il secondo esempio di cui vorrei parlare non è un vero e proprio spettacolo, quanto un progetto realizzato all’interno di una compagnia.
Il progetto di cui parlo è PANORAMA, realizzato tra 2017 e 2018 dalla compagnia Motus.

Fondata nel 1991 da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, Motus si definisce una “compagnia nomade e indipendente, in costante movimento tra Paesi, momenti storici e discipline”, come si può leggere sul sito internet della compagnia.

Impegnati da anni nella realizzazione di teatro sociale, l’ultimo progetto portato avanti dalla compagnia è appunto PANORAMA.

A differenza di ciò che è stato trattato finora, tuttavia, PANORAMA non è stato realizzato in ambito europeo, ma negli Stati Uniti della presidenza Trump.

Potrebbe essere definito una “biografia plurale”, che tratta i temi della ricerca dell’altrove per trovare sé stessi. Lo stesso titolo, Panorama, deriva da una parola greca che significa “vedere oltre”, “vedere il più possibile”.

Ed è proprio su questo che il progetto si articola. Il punto di partenza è un gruppo inter-etnico di attori che lavorano nell’East Village di New York. Il gruppo è composto da attori provenienti da quasi ogni parte del globo, che hanno intrapreso un lungo viaggio per arrivare dove attualmente sono, che si sono dovuti confrontare con un Altro e un Altrove spesso molto differente da quello da cui erano partiti.
Lo spettacolo, presentando le biografie di questi attori, rivendica il diritto alla fluidità, alla non appartenenza, al movimento perpetuo che dovrebbe essere proprio di ogni essere umano prima ancora che di ogni attore: una “performance sull’umano diritto a essere in movimento”, come lo definisce la compagnia.

PANORAMA è andato in scena a New York, nell’ambito dell’Under the radar Festival.

Ritengo che sia proprio questo il punto più importante su cui vale la pena soffermarsi: il diritto a restare in movimento. Tutto il teatro, a partire dalle origini per arrivare fino ad oggi è fondato sul viaggio, non solo fisico, ma anche culturale. Un viaggio che può rivolgersi verso gli altri e verso noi stessi. Tutto quello che oggi viene messo in scena nei teatri di tutto il mondo è il frutto delle sperimentazioni, delle idee, del pensiero di chi nel passato, vicino o lontano che sia, ha deciso di mettersi in gioco.

Per queste ragioni vorrei, per il prossimo mese, soffermarmi su una personalità in particolare, uomo di teatro tanto quanto viaggiatore, che ha cambiato il modo in cui la forma teatrale viene vista e che ha lasciato un’eredità estremamente importante a tutti coloro che si occupano di teatro.

Parlare di teatro non è solo restare nel nostro “qui e ora” ma andare alla ricerca di altri luoghi e soprattutto di altri tempi per capire da dove veniamo e, perché no, provare a decidere da che parte andremo.

Per citare Eugenio Barba:

“Il teatro mi permette di non appartenere a nessun luogo, di non essere ancorato a una sola prospettiva, di rimanere in transizione”.

E credo che tutti, attori e persone di teatro in special modo, debbano ora rivendicare questo loro diritto alla fluidità e alla non appartenenza.

Dopo la nascita dell’Unione Europea è diventato sempre più necessario per ogni Stato membro trovare un punto di contatto, un canale privilegiato di comunicazione con culture, usanze e abitudini diverse e alle volte distanti dalle proprie.

E quale strumento meglio del teatro può promuovere la conoscenza tra culture e stabilire relazioni durature?

Questa necessità ha iniziato a diventare sempre più importante partire dalla fine degli anni ’90, e si può dire che ad oggi abbia fatto alcuni passi avanti. Anche in Italia si è cercato il modo per far conoscere le proprie compagnie all’estero, sebbene i risultati siano in certi casi ancora contraddittori.

La prima e più importante problematica con cui si scontra chi in Italia pianifica una tournée all’estero è rappresentata spesso dall’inefficacia dei finanziamenti pubblici, che dovrebbero facilitare le compagnie anche dal punto di vista promozionale.

Ciononostante, non mancano esempi di compagnie che siano riuscite ad affermarsi in un contesto internazionale. In particolare, alcune delle realtà che sono riuscite ad affermare la propria presenza nell’ambito dei festival internazionali sono la Socìetas Raffaello Sanzio e Motus.

Un altro fenomeno che ha permesso lo sviluppo del teatro a livello internazionale in Europa sono state le reti culturali.

Nate a partire dagli anni ’80 sull’onda dei progressi della comunicazione di massa, queste reti ibride hanno permesso a gruppi teatrali di costituirsi in organizzazioni, anche se non sempre centralizzate, con problematiche comuni e, nella maggior parte dei casi, legate ad uno stesso territorio. Queste reti sono perlopiù informali e in costante evoluzione, e le loro fondamenta si appoggiano su strutture poco complesse e solo leggermente burocratizzate.

Tuttavia, i risultati migliori a cui ha portato l’europeizzazione del teatro sono a mio parere due network europei per il teatro: l’Unione dei Teatri d’Europa e la Convenzione Teatrale Europea.

L’Unione dei Teatri d’Europa nasce circa 30 anni fa, quando alcuni teatri in Italia, Francia e Spagna decidono di unirsi nella prima unione di questo tipo, “Teatri d’Europa”. È poi solo nel 1990, grazie alla stretta cooperazione di Giorgio Strehler e Jack Lang, Ministro della Cultura del governo Mitterand, che nasce l’attuale Unione. All’origine nata come promotrice di festival, l’Unione è ora costituita su basi più solide, che vedono convivere l’impegno culturale e quello politico-sociale, e che ha portato anche allo sviluppo di progetti come “Conflict Zones”, “TERRORisms”, “1914-2018”. Attualmente l’Unione conta più di 40 membri (43 per la precisione) provenienti da 17 stati europei ed extra europei (ne fanno parte anche teatri russi e israeliani). Nello specifico, questo gruppo conta 20 teatri, 11 membri onorari e 4 membri individuali, personalità di spicco dell’universo teatrale europeo.

I membri italiani dell’Unione sono: il Piccolo Teatro di Milano e il Teatro di Roma.

La Convenzione Teatrale Europea è un network creato nel 1988 al fine di promuovere lo scambio culturale tra i vari stati dell’Unione Europea, con particolare attenzione per il dramma contemporaneo e la mobilità degli artisti. La mission del network è chiaramente esemplificata sul sito della Convenzione. Si legge infatti: “Con progetti teatrali creativi e innovativi di grande qualità l’ETC cerca di riaffermare il ruolo del teatro, la sua intrinseca forza sovversiva per plasmare uno spazio pubblico europeo, che offra accesso alla cultura a tutte le generazioni. […]” La Convenzione conta ad oggi 40 teatri membri da 23 Paesi diversi.

I membri italiani sono: la Fondazione del Teatro Stabile di Torino, il Teatro Stabile di Genova, Cantieri Teatrali Koreja, Centro di Produzione Teatrale (Lecce) e la Fondazione Teatro Due (Parma).

Sembra quindi che, anche in un momento di crisi come questo, si possa sperare di vedere la luce alla fine del tunnel, sebbene questa sia ancora lontana e incredibilmente fioca. Ma non per questo bisogna darsi per vinti.

Magari questa luce può essere rappresentata dalla creazione di un modello teatrale europeo, che sia utile non solo al teatro in quanto istituzione ma anche e soprattutto a chi il teatro lo frequenta.

Penso che potremmo vedere questa possibilità come un modo per uscire dai nostri gusci e andare alla scoperta dell’“altro”, anche se questo “altro” magari dista da noi solo una manciata di chilometri.

“Intanto, la miglior cosa da fare, è forse di rinunciare al salvataggio del Teatro italiano così com’è. L’antichissimo edificio, dopo millenni di gloria, è divenuta una crollante baracca: ha esaurito il suo compito. Lasciamo che si sfasci. Noi non possiamo non aver fede nelle energie della razza: mille segni sporadici ma vivi ci han detto che le sue virtù non sono spente. Per questo crediamo, sappiamo, che domani qualcuno ricostruirà; ma sulle rovine.” (Silvio D’Amico)

Volendo iniziare la redazione di questo contributo, per sfizio personale, ho deciso di cercare su Google le parole “situazione del teatro amatoriale in Italia”. I primi risultati apparsi avevano tutti una medesima tematica: la crisi del teatro.

Che sia forse un caso? Io credo (e temo) di no.

Che il settore teatrale in Italia stia vivendo un periodo di crisi è ormai cosa risaputa da ben più di dieci anni a questa parte. Con la crisi iniziata nel 2008, poi, la situazione non è andata migliorando. La stretta economica ha portato a un calo di pubblico e al calo del potere d’acquisto di quel pubblico. Le ultime stime, inoltre, affermano che solo 1 italiano su 5 va a teatro.

Ma come si inserisce il teatro amatoriale in questo orizzonte?

Innanzitutto, una premessa è necessaria. Per comprendere bene la nascita e lo sviluppo del modello amatoriale in Italia è necessario fare un passo indietro, tra gli ultimi decenni dell‘800 e i primi del ‘900: è lì che si è venuto a stabilizzare il modello che poi avrebbe contraddistinto l’organizzazione teatrale italiana professionistica (e anche amatoriale).
Il teatro italiano è un teatro di compagnie di giro. Il capocomicato è rimasto fino al 1947 la principale forma del teatro italiano, prima di essere soppiantato dal sistema degli stabili.
Ed è proprio sotto forma di compagnia che si presentano principalmente i gruppi teatrali amatoriali.

Le compagnie amatoriali hanno ormai assunto alcune delle caratteristiche tipiche proprie anche dalle compagnie professionistiche del post crisi economica. Tra le similitudini principali, si può notare che entrambe si basano sulla compresenza di attori e spettatori, si concentrano maggiormente su piccole platee, propongono spettacoli che puntano sull’intensità emotiva e comunicativa, valorizzano il lavoro sul territorio e le compagnie sono generalmente composte da ristretti gruppi di persone.

Ovviamente ci sono anche molte differenze.

Come si può leggere nell’analisi curata da F. Mussi nel suo saggio “Le politiche culturali in Italia: il teatro amatoriale” (in “La produzione artistica e culturale e i suoi attori. L’intervento pubblico al tempo della democrazia e dello Stato sociale” a cura di Andrea Villani), le differenze esistenti tra teatro amatoriale e teatro professionistico sono di natura strutturale e sono fondamentali per la comprensione della diversità di approccio di questi due settori.
In primo luogo, il teatro amatoriale non è la principale fonte di sostentamento di coloro che lo praticano: esso è un impiego di tempo libero, e per questo spesso ha a disposizione meno fondi e una visibilità notevolmente inferiore rispetto al teatro professionistico. Questo deriva anche dal fatto che il teatro amatoriale non gode della rappresentanza delle istituzioni pubbliche.
Nel parlare comune italiano, poi, la dicitura “teatro amatoriale” è connotata da un senso negativo che indica scarsa qualità, scarsa autorevolezza e irrilevanza a livello culturale.

È come se si venisse a creare una contrapposizione aperta tra teatro primario (professionale) e teatro secondario (amatoriale).

Ma è sempre vero che al professionismo corrisponde la qualità? La mia risposta è: non sempre. La maggior strutturazione e visibilità, la necessità di guadagno, e, insomma, il bisogno di mantenere un profilo abbastanza alto possono spingere le compagnie professionistiche ad andare incontro ai gusti del pubblico, riducendo il proprio livello di autonomia artistica a favore di una maggiore vendibilità degli spettacoli prodotti. E ad obbedire al diktat di riempire la sala ogni sera.

Il teatro amatoriale non ha questo problema. Certo, anche i piccoli spazi devono sopravvivere economicamente, ma le diverse norme e i diversi costi di gestione lasciano agli amatori più libertà d’azione. Inoltre, la consapevolezza di un minor risalto sulla scena pubblica fa sì che i gruppi amatoriali si sentano meno in dovere di andare incontro ai gusti del pubblico, e che si sentano quindi liberi di seguire una linea qualitativa e contenutistica propria. L’organica situazione di precarietà dei teatri che gestiscono, poi, spinge gli amatori ad essere sempre alla ricerca di nuovi percorsi, al contrario dei professionisti che spesso prediligono la sicurezza di un terreno già battuto.

Risulta chiara quindi l’importanza del teatro amatoriale in termini di apporto sia quantitativo, ma soprattutto qualitativo, alla scena nazionale.

Che il teatro amatoriale possa ribaltare le sorti del teatro professionistico?

È possibile che ora, in un periodo di grave crisi per il teatro italiano ci sia bisogno dell’apporto culturale dei gruppi amatoriali, che, anche grazie alle loro debolezze, hanno la possibilità di mettersi in gioco e di rifondare un sistema ormai destinato ad implodere sotto il peso della burocrazia.

Per dirla con le parole di Grotowski:

Da dove può venire il rinnovamento? Da gente scontenta della situazione del teatro normale e che si assuma il compito di creare teatri poveri con pochi attori, “compagnie da camera” […] oppure da dilettanti che lavorando al margine del teatro professionista, da autodidatti siano arrivati ad uno standard tecnico di gran lunga superiore a quello richiesto nel teatro dominante; in una parola, pochi matti che non abbiano niente da perdere e che non temano di lavorare sodo.

Ed è proprio di questo che il teatro italiano ha bisogno: di qualche matto che abbia il coraggio di costruire sulle rovine.

Fare teatro non ha mai significato solo recitare su di un palco.

Fare teatro è molto di più. Vuol dire conoscere, studiare, vivere il teatro come ambiente e come idea, sentirsi parte di uno dei più longevi e importanti mezzi di diffusione culturale mai esistiti.

Significa anche conoscere le radici di ciò che si sta facendo, conoscerne il presente per capire quale sarà il suo futuro. O quanto meno provarci.

Fin dai suoi esordi, il teatro ha occupato un posto di rilievo nella vita dei singoli uomini e delle comunità umane: dalla polis ateniese ai Misteri medievali, da Shakespeare al Living Theatre tutte le società si sono affidate al teatro per cercare, o creare, un fondamento comune, un collante, qualcosa che facesse sentire gli uomini e le donne come parte della stessa storia.

Il teatro è portatore di un messaggio non solo sociale, ma anche politico, ideologico e comportamentale e il suo utilizzo come mezzo di diffusione delle idee si ritrova in tutti i grandi eventi storici dall’epoca di Pericle in poi.

Ciò resta vero anche nell’epoca del Web 2.0, sebbene ormai di teatro si parli fin troppo poco, e sebbene la diseducazione teatrale di nuove e vecchie generazioni sia ora un dato certo: nonostante questo e nonostante i numeri della partecipazione ad eventi di natura teatrale siano diminuiti non di poco il teatro continua ad essere sentito come parte importante del vivere civile e continua ad essere amato dal pubblico.

Ciò che non cambia è l’impatto, quasi sempre inconsapevole, che il teatro ha sulla vita quotidiana di tutti noi.

Due grandi pensatori del Novecento del calibro di Erving Goffman e Jean Duvignaud hanno basato le loro teorie sulla considerazione che la forma teatrale teorizzata nel V secolo a.C. sia la base su cui noi tutti costruiamo le interazioni sociali del nostro quotidiano.

E questo è solo un esempio.

In una recente intervista a La Stampa Gabriele Lavia, alla domanda sul perché le persone continuino ad amare il teatro, risponde:

“La gente lo ama perché è la più antica e perfetta rappresentazione dell’uomo di fronte ad altri uomini, è lo specchio di chi guarda il mito di Dioniso che non si riconosce per quello che è. Il teatro sopporta bizzarrie, tentativi di inutili modernizzazioni perché l’essenza non cambia mai”.

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