Un nuovo Manifesto per un Nuovo teatro

Manifesto Pasolini

“Queste note sono scritte sotto la forma di un manifesto, perché ciò che di nuovo esse esprimono si presenti dichiaratamente e magari anche autoritariamente come tale” (Manifesto per un nuovo teatro, Pier Paolo Pasolini)

Il 1968 è stato l’anno dei grandi cambiamenti a livello sociale e politico. Quell’anno ha segnato una cesura netta con tutto quello che era stato prima e – almeno in un primo tempo – è sembrato essere la risposta a tutti i mali. Il ’68 è stato anche e soprattutto un grande giro di boa per la cultura: le nuove ideologie di stampo comunista, i movimenti dei giovani e in generale tutti i movimenti nati in seno a quell’anno si sono fatti portatori di un messaggio culturale nuovo e rivoluzionario.

In Italia un nutrito gruppo di uomini di cultura era stato persino in grado di prevedere e anticipare questo grande movimento: sono i firmatari della convocazione per il Convegno di Ivrea, avvenuto nel 1967.

Non è tuttavia di questo che voglio parlare, ma di un altro grande uomo di cultura e d’arte italiano che da quel Convegno si è distaccato e allo stesso tempo lo ha sfruttato per portare avanti la sua personale linea culturale.
Nel 1968 esce un altro manifesto, il Manifesto per un Nuovo teatro. In calce, c’è la firma di Pier Paolo Pasolini.

L’intellettuale, da sempre estremamente critico nei confronti del teatro, si era avvicinato alla scrittura di opere teatrali in versi nel 1965, adducendo come motivazione un’ulcera che lo aveva costretto a letto per diverso tempo.

“[…] il teatro non lo seguo molto. È un fatto che ogni volta che vado a teatro ne esco arrabbiatissimo e quindi ho smesso di prendermi queste inutili rabbie” (Intervista a Corrado Augias, Pier Paolo Pasolini)

Dopo la pubblicazione delle sue tragedie in versi, Pasolini si cimenta nella scrittura di un Manifesto per il suo teatro, un teatro in netta opposizione rispetto a quelli già esistenti – da lui definiti “della chiacchiera” e “del gesto e dell’urlo”, che sono rispettivamente il teatro borghese e il teatro d’avanguardia. Un teatro perfettamente in linea con i principi del ’68, un teatro quindi culturale e politico, che vuole leggere la società attraverso la letteratura.

Quello che fa Pasolini con questo Manifesto è primariamente una presa di distanza completa e totale da tutto quello che era o era stato il teatro del suo tempo. Egli voleva fondare un teatro non solo nuovo, ma inimmaginabile: in apertura del Manifesto Pasolini afferma infatti che per concepire qualcosa di nuovo ci si rifà a categorie preesistenti, a idee già presenti in noi, e di conseguenza il nuovo non è mai realmente tale. L’obiettivo a cui punta è invece quello di creare un teatro che non avesse nulla a che vedere con quello che nel ’68 veniva considerato teatro.

Nel suo Manifesto Pasolini parla di una riforma a tutto tondo del teatro, che quindi non comprendeva solo i modi del teatro, ma anche gli spettatori.

“Una signora che frequenta i teatri cittadini, e non manca mai alle principali ‘prime’ di Strehler, di Visconti o di Zeffirelli, è vivamente consigliata a non presentarsi alle rappresentazioni del nuovo teatro” (Manifesto per un nuovo teatro, Pier Paolo Pasolini)

Pasolini immaginava per il suo teatro un pubblico non ampio, che sostanzialmente coincidesse con la stessa classe sociale che scriveva, produceva e faceva quel teatro, un teatro che “ha come destinatari gli stessi gruppi culturali avanzati da cui è prodotto” (Manifesto per un nuovo teatro, Pier Paolo Pasolini), con tutto ciò che questo avrebbe comportato.

Pasolini definisce all’interno dal Manifesto il suo nuovo teatro come “teatro di parola”, un teatro quindi completamente incentrato sul testo, che torna ad avere il ruolo di protagonista indiscusso. Tutto il resto, dalla scenografia alle luci, dalle musiche alla stessa messinscena passano in secondo piano o scompaiono del tutto. Ciò che deve risaltare è la parola scritta, il testo poetico, che nella concezione di Pasolini è l’elemento fondante e più importante del teatro.

Pasolini nel suo Manifesto polemizza anche con la parola. Non la parola scritta, ma quella orale, fondamentale a teatro: egli si scaglia contro l’italiano parlato dalla borghesia, che sarebbe a suo dire un italiano “convenzionale”, in nulla simile a quello vero, autentico, parlato dalla classe operaia. La critica pasoliniana colpisce in particolare la dizione, il risultato finale di questa convenzionalità che, secondo l’opinione dello scrittore, toglierebbe ogni vita alla lingua parlata.

Tuttavia, per poter essere comprensibile, il teatro di parola è costretto a cadere in contraddizione: negando esso il dialetto come mezzo di espressione, si vede costretto a piegarsi a quella stessa convenzione che disprezza. Il modo che Pasolini trova per cercare di arginare questa contraddizione in questo caso è affermare che l’attenzione dovrà essere focalizzata non tanto sulla lingua utilizzata ma sul senso delle parole pronunciate.

Quello immaginato e teorizzato da Pasolini era un teatro tanto utopistico quanto le idee di colui che l’aveva realizzato. Un ritorno alle origini che è al contempo un guardare avanti, una negazione dei modelli che però ai modelli si lega e che si vede costretta a servirsene. Un teatro che non vide mai la luce. Perché nonostante i testi ci fossero, questo teatro non venne mai portato in scena, a parte poche eccezioni, che comunque non andarono come l’autore aveva auspicato. Un teatro che già dalla nascita è una contraddizione: Pasolini non amava il teatro, gli si è avvicinato quasi per errore, ma non è più uscito.

La personalità artisticamente a tutto tondo dell’autore ha senza dubbio contribuito a rendere il Nuovo teatro un progetto importante, ambizioso, ma troppo difficile da realizzare, o quanto meno non adatto al contesto in cui stava nascendo.

Ciononostante, l’importanza culturale di questo Manifesto e in generale di questo progetto è stata ed è ancora fondamentale: per le idee, per i testi che ne sono derivati, per il potere di opposizione che ha rivelato, e infine per essere un documento fondamentale che attesta la voglia e la necessità di cambiamento del teatro italiano.
Una critica sferzante che il Corsaro rivolge a tutta quella che era considerata l’élite teatrale del suo tempo. Una critica forse esagerata a tratti, un po’ fuori dalle righe, e un progetto difficilmente applicabile sul piano pratico che tuttavia testimonia il genio intellettuale di Pasolini, che anche in questo ambito riesce a divenire un modello a cui guardare.