Un manifesto a teatro

Un manifesto a teatro

Oggi, invece, ciò che si mette in discussione è il teatro stesso: la finalità di questo manifesto è dunque, paradossalmente, la seguente: il teatro dovrebbe essere ciò che il teatro non è” (Manifesto per un Nuovo Teatro, Pier Paolo Pasolini)

Quando ci imbattiamo nella parola “manifesto” – declinata nel suo significato più teorico e in un certo senso più culturalmente carico – subito viene da pensare ai grandi manifesti dei gruppi di artisti, in particolar modo pittori, del Novecento: esiste un manifesto del Surrealismo, firmato da André Breton nel 1924, così come il “nostrano” manifesto del Futurismo scritto da Marinetti; i lettori degli anni ’20 del Novecento potevano sfogliare la rivista De Stijl, fondata da Theo van Doesburg, con la quale venivano resi pubblici  i contenuti programmatici dell’omonima corrente artistica, famosa per avere fra i suoi artisti di punta il pittore Piet Mondrian.

Ma esistono manifesti artistici anche per correnti minori e meno conosciute, come il Suprematismo di Malevič o il programma di Die Brücke, il maggior gruppo espressionista tedesco.

Quasi ognuno di questi manifesti ha anche una sezione dedicata al teatro: ogni movimento artistico infatti, nonostante nell’immaginario collettivo siano rappresentati soprattutto dall’arte pittorica, aveva un programma a tutto tondo, che comprendeva dalla pittura all’architettura, dalla letteratura al teatro.

I manifesti in campo teatrale quindi esistono e sono sempre esistiti, in particolar modo a partire dalla nascita delle Avanguardie.

I manifesti teatrali tuttavia non per forza sono legati a una corrente o a un movimento: essi possono essere scritti anche da gruppi “autonomi” o addirittura da singoli autori – registi o drammaturghi – che se ne servono per esplicitare la loro personale linea artistica e di pensiero.

Tutti i manifesti hanno però alcune caratteristiche in comune. La prima e più facilmente identificabile fra queste è la forma: essi sono testi brevi, generalmente divisi per punti o per argomenti, che spiegano in maniera abbastanza approfondita la forma e le caratteristiche che una determinata corrente teatrale – o artistica – assumerà da quel momento in poi.

Alcuni fra i manifesti teatrali più importanti scritti nel corso del Novecento sono a mio parere il Primo e il Secondo Manifesto del Teatro della Crudeltà di Artaud, il Manifesto del Terzo Teatro di Eugenio Barba, il Manifesto redatto in occasione del Congresso di Ivrea del 1967, il Manifesto per un Nuovo Teatro di Pier Paolo Pasolini, solo per citarne alcuni.
Un altro scritto che a mio parere può essere annoverato fra i manifesti è Per un teatro povero di Jerzy Grotowski: nonostante questo sia una raccolta di scritti e interviste del maestro polacco, cionondimeno ha la stessa funzione di un manifesto, traccia la via seguita da Grotowski lungo tutta la sua carriera e descrive le motivazioni delle sue scelte.

La funzione principale dei manifesti, il motivo stesso per cui vengono scritti, è per marcare una discontinuità rispetto al passato. Gli artisti o i gruppi che avvertono l’esigenza di scrivere un manifesto lo fanno perché auspicano un cambiamento rispetto all’ordine stabilito delle cose.

Se si prendono ad esempio due manifesti come il Manifesto scritto per convocare il Congresso Ivrea del 1967 e il Manifesto per un Nuovo Teatro di Pasolini del 1968 si può vedere subito che entrambi questi scritti vogliono affermare il dissenso dei loro autori nei confronti del teatro ufficiale di quegli anni.

Ma a teatro esistono anche altri tipi di manifesti, e sono le opere stesse: capita che alcuni autori decidano di affidare l’enunciazione e la spiegazione delle loro personali idee artistiche e non solo a un’opera. Ne è un esempio “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello. Oltre a essere uno dei più conosciuti e credo importanti testi teatrali scritti in Italia nel Novecento, questo è anche la personale presa di posizione di Pirandello nei confronti non solo dell’arte, ma della stessa vita.

Penso di poter annoverare anche questo tra i manifesti – nonostante le differenze a livello di forma e in parte anche di contenuti – perché uno dei suoi obiettivi è quello di esprimere l’idea, la personale visione di un autore, visione che vuole essere trasmessa al pubblico. L’unica cosa che cambia è la forma adottata.

Non più un elenco di “regole” cui attenersi o di punti programmatici, ma una pièce che mette in scena una filosofia.

Non esiste una definizione stabile, stabilita, di ciò che sia un manifesto: non ci sono regole che ne limitano forme e contenuti, la somiglianza che li caratterizza è più legata a una convenzione che si è fatta strada nel corso del tempo.

Ciò che a parere mio è indubbio è il valore di questi documenti, capaci di portare avanti in maniera semplice, immediata uno studio alle volte estremamente lungo e complesso. Quello che i manifesti sono in grado di fare è colpire il lettore con idee che vengono fatte sembrare semplici.

In realtà, una volta analizzati, i manifesti sono portatori di una ricchezza culturale estremamente importante. Sono contenitori di idee, tradizioni, novità, riforme e rivoluzioni che, prima di andare in scena come spettacoli o performance, possono raggiungere il pubblico sotto forma di scritto, più distribuibile e più facilmente fruibile.

E credo che l’importanza dei manifesti stia proprio nel loro essere talmente immediati da centrare subito il bersaglio, sia esso a distanza di chilometri, di continenti, di anni o di decenni.