Come ogni anno, è arrivata la notte delle streghe, dei travestimenti e delle feste a tema.

Nato in tempi antichissimi tra le popolazioni celtiche e diventato un fenomeno di massa completamente diverso oltreoceano, Halloween sta prendendo sempre più piede anche in Italia.

Certo, se si vogliono vedere i veri festeggiamenti in onore di questa fiera dell’orrore bisogna ancora puntare gli occhi sull’America.

Negli Stati Uniti Halloween è un ‘quasi un culto’, un’occasione per fare festa – e per manifestare al meglio il proprio gusto per il macabro. Nelle grandi città così come nelle più piccole, case, strade, abitanti e talvolta le città stesse si trasformano in una sorta di fantastica fiera a cielo aperto dove tutto richiama il tema del soprannaturalmente horror.

La classica immagine che rappresenta Halloween – la zucca intagliata che troneggia vicino agli ingressi delle abitazioni – sta pian piano venendo soppiantata da decorazioni sempre più spettacolari e realistiche al contempo. La tradizione si mantiene indubbiamente al passo coi tempi: anni fa sarebbe stato impossibile imbattersi in questo genere di decorazioni, che ora sono fin troppo “normali”.

Inutile dire che la passione per il macabro e il mondo dei mostri ha toccato anche il teatro, a diversi livelli.

In Italia il fenomeno è ancora poco sviluppato, le iniziative per Halloween, quando e dove sono presenti, sono perlopiù riservate a bambini e ragazzi, i quali vengono coinvolti in spettacoli e feste a tema. Il mondo degli adulti è invece quasi completamente escluso da questo tipo di iniziative.

Nei paesi anglofoni invece ci troviamo davanti a una realtà completamente diversa: da Broadway al West End ogni anno vengono organizzati spettacoli teatrali ispirati alla notte delle streghe che oltre ai più giovani coinvolgono anche gli adulti.  Nel corso degli anni sono stati parecchi gli spettacoli a tema tipicamente macabro o horror che hanno spopolato nei teatri e che a volte sono diventati veri e propri cult. Spesso questi spettacoli non hanno una vera correlazione con la festività del 31 ottobre, ma ne sono diventati simboli grazie ai temi che trattano.

Dal classico dei classici, Frankenstein, per arrivare fino al Macbeth shakespeariano, gli spettacoli più cupi e “spaventosi” sono stati inglobati dalla tradizione ‘streghesca’ di Halloween e hanno finito per diventare i veri protagonisti della celebrazione.

Un altro show che ha avuto grande successo, prima sul palcoscenico poi sul grande schermo, e che è diventato un simbolo di Halloween senza essere nato per questo scopo è sicuramente il Rocky Horror Show. Probabilmente tutti conoscono la versione cinematografica – che aggiunge un Picture al titolo originale – ma la prima versione vede la luce un paio di anni prima in un teatro di Londra. Nonostante lo spettacolo originale non avesse nulla a che vedere con Halloween – tranne il tema horror con risvolti grotteschi – è presto diventato un simbolo della festa, e continua a esserlo ancora oggi.

E questo è solo un esempio per tutti gli show che in questa festività hanno trovato nuova vita.

Ben più vicino rispetto alla Broadway newyorkese, anche il West End di Londra ha fatto sua questa tradizione, soprattutto quando si parla di teatro. Gli spettacoli di Halloween non mancano nei teatri della capitale inglese, e danno la possibilità a chiunque voglia – bambini e non – di trovare il proprio spettacolo per passare una serata fuori dalle righe.

Anche per questo 2018 le proposte sono numerose: si possono infatti trovare dai titoli più classici – come Frankenstein, Macbeth o La donna in nero – fino allo sperimentale The exorcism di Ross Sutherland.

Si svolgerà poi – dal 29 ottobre al 3 novembre – il London Horror Festival 2018. Come si può dedurre dal titolo, la programmazione è completamente orientata verso il mondo del macabro, con risvolti alle volte grotteschi ed esilaranti.

In Italia il dibattito relativo a questa festa è tutt’altro che chiuso, sebbene negli ultimi anni anche le nostre strade nella notte del 31 ottobre siano sempre più popolate di streghe e scheletri e nelle città non manchino le feste a tema.

Ritengo tuttavia che, se usato per diffondere la cultura – che sia sotto forma di letture, spettacoli o concerti – Halloween non sia così negativo come alle volte viene dipinto.Anzi, la sempre crescente presa che questa festività ha sui più giovani potrebbe essere sfruttata per far avvicinare le nuove generazioni al teatro, magari iniziando proprio con letture o spettacoli a tema, poi spaziando verso contenuti diversi e più “teatrali”.

Se ogni scusa è buona per andare a teatro e leggere un buon libro perché non approfittare anche di questa tradizione venuta da lontano?

Ogni fantasma, ogni creatura d’arte, per essere, deve avere il suo dramma, cioè un dramma di cui esso sia personaggio e per cui è personaggio. Il dramma è la ragion d’essere del personaggio; è la sua funzione vitale: necessaria per esistere” (Prefazione a Sei personaggi in cerca d’autore, Luigi Pirandello)

L’ultimo manifesto che voglio trattare non ha nulla a che vedere con i precedenti. Non è il risultato di uno studio a tavolino della situazione del teatro, non è una proposta di cambiamento e nemmeno un grido rivoluzionario. È la riflessione – tradotta sotto forma di opera teatrale – della filosofia personale di uno dei maggiori autori del Novecento italiano. Sto parlando di Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello.

Penso di poter annoverare questo testo tra i manifesti teatrali in quanto esso è l’esplicazione e la contempo l’applicazione di quello che è sempre stato il fulcro del pensiero pirandelliano, da Il fu Mattia Pascal, attraverso Il treno ha fischiato per giungere infine a Uno, nessuno e centomila.

Primo dramma che andrà poi a comporre la trilogia del “teatro nel teatro”, Sei personaggi in cerca d’autore è il dramma più conosciuto, studiato e apprezzato di Pirandello. Il tema principale dell’opera è l’incomunicabilità, espressa durante tutto il corso dell’opera.

Penso che il tema sia stato trattato da Pirandello a diversi livelli – a un tempo distinti e intrecciati – così da renderne l’opera completamente pervasa.

Il primo livello di incomunicabilità è quello che definisce gli stessi sei Personaggi, incapaci di parlare tra loro, di raccontare la propria storia, di farne partecipi altre persone. Questi Personaggi sono destinati a vivere da soli i propri drammi personali, con nessuno che possa anche solo lontanamente farsene carico o anche semplicemente rappresentare al posto loro le tragedie che essi si sono trovati a vivere.

Ancora peggio, l’incomunicabilità di questi personaggi colpisce in primis il loro stesso autore, che li ha abbandonati condannandoli a vivere vite mai completamente vere, senza mai poter essere rappresentati. Un’esistenza inutile, sempre in sospeso, che impedisce ai personaggi di raggiungere qualsiasi traguardo.

Il secondo grado di incomunicabilità è quello tra i Personaggi e gli Attori della compagnia: per quanto questi ultimi si sforzino, non potranno mai rappresentare, o anche solo sentire davvero le vicissitudini dei Personaggi. Per mancanza di empatia, perché troppo concentrati e sicuri all’interno del loro ruolo di attori, né questi né il Capocomico riescono a carpire fino nel profondo la storia che si sta svolgendo di fronte a loro. Non solo: non comprendendola, non riescono a metterla in scena e di conseguenza la bollano come inutile e fanno l’impossibile per liberarsi di quella strana combriccola colpevole di avergli rubato un intero giorno di prove.

A questi due, ritengo di poter aggiungere un terzo livello di incomunicabilità, anche se questo non riguarda strettamente il testo: è l’incomunicabilità tra il dramma stesso e gli spettatori.

La prima rappresentazione, nel 1921, venne accolta dal pubblico non solo con freddezza, ma con un totale rifiuto.

Sebbene in seguito l’impatto col pubblico divenne meno forte, questa continua a essere un’opera caratterizzata da un forte senso straniante, sia per il tema meta teatrale, sia per la modalità con cui si svolge tutta l’azione. Dall’inizio in medias res, privo di qualsiasi introduzione o chiarimento, fino ai due intervalli mascherati da incidente, da casualità non premeditata.

Per queste caratteristiche, il pubblico fatica a sentirsi veramente parte del dramma, lo osserva da lontano, da fuori, essendoci dentro fisicamente ma intimamente lontano.

Penso che quest’opera – sebbene scritta quasi un secolo fa – parli in realtà di tutti noi.

Nella società della comunicazione ad ampio raggio sembra che l’incomunicabilità la faccia sempre più da padrona nella quotidianità delle nostre vite.

È come se Pirandello fosse stato in grado di prevedere questa involuzione già nel secolo scorso. E lo ha fatto mettendo in scena un dramma senza tempo, che potrebbe appartenere a qualsiasi epoca ma che viene reso perfettamente contemporaneo dal rapporto che si istaura tra i Personaggi abbandonati dal loro stesso autore e gli Attori, talmente concentrati su sé stessi e sul proprio ruolo da non essere in grado di capire quel dramma che si svolge davanti ai loro occhi e al quale essi avrebbero potuto dare voce.

Il dramma messo in scena da Pirandello non è solo quello di chi non sa parlare, ma anche quello di chi non sa ascoltare.

Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre, chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai” (Sei personaggi in cerca d’autore, Luigi Pirandello)

Non è tuttavia solo colpa della volontà degli uomini. È come se fossimo condannati a non poter comunicare veramente con chi ci sta intorno. E sembra essere proprio questo il messaggio forte che ci arriva dalle pagine di Pirandello. Nei suoi scritti, egli parla di uomini, di maschere, e del fatto che tra uomini e maschere non esiste una grande differenza. Forse sono proprio le maschere che ci obblighiamo a portare quelle che ci impediscono di comunicare davvero con chi ci sta intorno – a sua volta adornato da una maschera diversa dalla nostra che egli stesso ha deciso di portare.

E il dramma che ci racconta Pirandello è proprio questo.

Il dramma di chi non riesce a liberarsi dalle maschere che ci vengono imposte – o auto imposte.

Il dramma di chi non riesce a far sentire la propria voce e al contempo il dramma di chi decide di non ascoltare.

Il dramma infine di chi – come noi – fatica sempre più a capire l’importanza di comunicare davvero, senza barriere, con chi ci circonda.

Il poeta, a loro insaputa, quasi guardando da lontano per tutto il tempo di quel loro tentativo, ha atteso, intanto, a creare con esso e di esso la sua opera” (Prefazione a Sei personaggi in cerca d’autore, Luigi Pirandello)

In una situazione di progressiva involuzione, estesa a molti settori chiave della vita nazionale, in questi anni si è assistito all’inaridimento della vita teatrale, resa ancora più grave e subdola dall’attuale stato di apparente floridezza” (Manifesto per la convocazione del Convegno di Ivrea)

Sono parole di grande attualità quelle che aprono il Manifesto per la convocazione del Convegno di Ivrea. E viene da chiedersi perché lo siano ancora quando il Manifesto è stato scritto e pubblicato nel 1966.

La pubblicazione di questo Manifesto ha causato una profonda cesura nella cultura teatrale italiana, e questo per diversi motivi. Primo fra tutti, l’anno. Un anno drammaticamente vicino a quel ’68 che si è fatto mietitore di tutte le ideologie prima considerate ufficiali. Un anno che ha affermato principi nuovi in politica, società e cultura. Un manifesto che quindi sembrerebbe anticipare i movimenti sessantottini.

In realtà il Manifesto non sposa in toto le politiche che avrebbero mosso, pochi mesi dopo, le grandi rivolte del ’68. Il nuovo teatro che viene qui formulato si discosta allo stesso modo e con grande energia da quel teatro soffocato dalla burocrazia che stava diventando il teatro italiano. La visione ampia del comitato di redazione del Manifesto non guardava più alla realtà italiana, ormai sempre più avulsa dalla vita sociale del Paese, ma guardava alle grandi esperienze nate all’estero in quegli stessi anni, in Europa e non solo. I “modelli” di riferimento di questo nuovo teatro diventano quindi il Teatro Laboratorio di Grotowski, l’Odin Teatret di Barba, il Living Theatre di Beck e Malina, per citarne alcuni.

Non c’è nuova strada nel teatro come in ogni altra attività dell’arte e della scienza che non implichi di necessità estesi margini di errore. Noi li rivendichiamo. Non vogliamo dar vita a un teatro clandestino per pochi iniziati, né rimanere esclusi dalle possibilità offerte dalle organizzazioni di pubblico alle quali riteniamo di avere diritto; rifiutiamo però un’attività ufficialmente definita come sperimentale, ma costretta ad allinearsi alle posizioni dominanti” (Manifesto per la convocazione del Convegno di Ivrea)

L’obiettivo che i firmatari del Manifesto si prefiggono è stilare un programma basato sulla realtà dei fatti e a quello attenersi per cercare, collaborando, una situazione a quei problemi che sono stati posti.

In una società ormai non più educata all’errore, in cui questo viene considerato solo come qualcosa da evitare a ogni costo, ritengo che il “rivendicare i margini di errore” sia un messaggio importante da parte di un gruppo che non si presenta da subito con delle risposte, semmai si fa conoscere attraverso delle domande e coinvolge altri per poter arrivare alle risposte.

Il secondo motivo che rende questo Manifesto un unicum nella letteratura italiana sono gli autori: non un individuo o un ristretto numero di uomini di teatro, ma un nutrito gruppo di intellettuali “trasversali”. Tra essi si possono vedere i nomi di uomini di teatro, ma anche giornalisti, critici, scenografi, compositori, registi, solo per citarne alcuni in modo da rendere l’idea della vastità delle competenze degli appartenenti al gruppo. La cooperazione tra questi professionisti della cultura ha prodotto un testo estremamente semplice, immediato, efficace e al contempo di grande profondità che centra il bersaglio ed è in grado di mostrare tutti i punti deboli della realtà teatrale italiana.

Al di sopra di ogni diversità pensiamo però di poter individuare una sufficiente forza di coesione nel trovarci comunque di fronte a problemi di lavoro fondamentalmente analoghi” (Manifesto per la convocazione del Convegno di Ivrea)

Un altro aspetto di questo lavoro che ritengo fondamentale è la consapevolezza della forza che risiede nella diversità: in questo caso – come credo in pochi altri – il fatto di essere un gruppo eterogeneo non è motivo di frammentazione, ma di forza. Tutti questi uomini di cultura – pur essendo ognuno un maestro nel proprio campo – si dicono disposti a lasciare da parte il ruolo da protagonista per mettersi tutti al servizio di una ricerca comune. Non c’è la volontà di un modo di vedere di prevalere sull’altro, semmai la volontà di mettere insieme esperienze e punti di vista per poter arrivare a una conclusione che soddisfi tutti. La consapevolezza di queste differenze è qui portata come vanto, come simbolo di ricchezza e come caratteristica fondante del lavoro che si deve svolgere. Non più quindi una divisione in settori soffocante per chi lavora e per chi osserva il risultato, ma un’armonia di intenti capaci di ritrasmettersi all’ideazione, allo sviluppo e al risultato.

Penso che dovrebbe colpire il fatto che queste pagine scritte nel 1966 siano ancora così attuali al giorno d’oggi. Ciò di cui gli autori parlano sono idee che non siamo stati in grado di raccogliere e di portare a compimento, ma al contempo sono anche un punto da cui si può ripartire. Il teatro italiano ha ancora bisogno di cambiare, di “svecchiarsi”, di essere più al passo coi tempi di quanto non sia ora.

Ritengo che oggi ci sia bisogno di un teatro nuovo, che abbia realmente qualcosa da dire, un teatro che sia frutto di collaborazione e non di settorialismi. Un teatro infine che sia in grado di ritrovare la sua forza originaria e da lì ripartire per costruire la sua nuova realtà.

Crediamo invece che ci si possa servire del teatro per insinuare dei dubbi, per rompere delle prospettive, per togliere delle maschere, mettere in moto qualche pensiero. Crediamo in un teatro pieno d’interrogativi, di dimostrazioni giuste o sbagliate, di gesti contemporanei” (Manifesto per la convocazione del Convegno di Ivrea)

I firmatari di questo Manifesto sono, in ordine alfabetico: Corrado Augias, Giuseppe Bartolucci, Marco Bellocchio, Carmelo Bene, Cathy Berberian, Sylvano Busotti, Antonio Calenda e Virginio Gazzolo, Ettore Capriolo, Liliana Cavani, Leo De Berardinis, Massimo De Vita e Nuccio Ambrosino, Edoardo Fadini, Roberto Guicciardini, Roberto Lerici, Sergio Liberovici, Emanuele Luzzati, Franco Nonnis, Franco Quadri, Carlo Quartucci e il Teatrogruppo, Luca Ronconi, Giuliano Scabia, Aldo Trionfo.

“Queste note sono scritte sotto la forma di un manifesto, perché ciò che di nuovo esse esprimono si presenti dichiaratamente e magari anche autoritariamente come tale” (Manifesto per un nuovo teatro, Pier Paolo Pasolini)

Il 1968 è stato l’anno dei grandi cambiamenti a livello sociale e politico. Quell’anno ha segnato una cesura netta con tutto quello che era stato prima e – almeno in un primo tempo – è sembrato essere la risposta a tutti i mali. Il ’68 è stato anche e soprattutto un grande giro di boa per la cultura: le nuove ideologie di stampo comunista, i movimenti dei giovani e in generale tutti i movimenti nati in seno a quell’anno si sono fatti portatori di un messaggio culturale nuovo e rivoluzionario.

In Italia un nutrito gruppo di uomini di cultura era stato persino in grado di prevedere e anticipare questo grande movimento: sono i firmatari della convocazione per il Convegno di Ivrea, avvenuto nel 1967.

Non è tuttavia di questo che voglio parlare, ma di un altro grande uomo di cultura e d’arte italiano che da quel Convegno si è distaccato e allo stesso tempo lo ha sfruttato per portare avanti la sua personale linea culturale.
Nel 1968 esce un altro manifesto, il Manifesto per un Nuovo teatro. In calce, c’è la firma di Pier Paolo Pasolini.

L’intellettuale, da sempre estremamente critico nei confronti del teatro, si era avvicinato alla scrittura di opere teatrali in versi nel 1965, adducendo come motivazione un’ulcera che lo aveva costretto a letto per diverso tempo.

“[…] il teatro non lo seguo molto. È un fatto che ogni volta che vado a teatro ne esco arrabbiatissimo e quindi ho smesso di prendermi queste inutili rabbie” (Intervista a Corrado Augias, Pier Paolo Pasolini)

Dopo la pubblicazione delle sue tragedie in versi, Pasolini si cimenta nella scrittura di un Manifesto per il suo teatro, un teatro in netta opposizione rispetto a quelli già esistenti – da lui definiti “della chiacchiera” e “del gesto e dell’urlo”, che sono rispettivamente il teatro borghese e il teatro d’avanguardia. Un teatro perfettamente in linea con i principi del ’68, un teatro quindi culturale e politico, che vuole leggere la società attraverso la letteratura.

Quello che fa Pasolini con questo Manifesto è primariamente una presa di distanza completa e totale da tutto quello che era o era stato il teatro del suo tempo. Egli voleva fondare un teatro non solo nuovo, ma inimmaginabile: in apertura del Manifesto Pasolini afferma infatti che per concepire qualcosa di nuovo ci si rifà a categorie preesistenti, a idee già presenti in noi, e di conseguenza il nuovo non è mai realmente tale. L’obiettivo a cui punta è invece quello di creare un teatro che non avesse nulla a che vedere con quello che nel ’68 veniva considerato teatro.

Nel suo Manifesto Pasolini parla di una riforma a tutto tondo del teatro, che quindi non comprendeva solo i modi del teatro, ma anche gli spettatori.

“Una signora che frequenta i teatri cittadini, e non manca mai alle principali ‘prime’ di Strehler, di Visconti o di Zeffirelli, è vivamente consigliata a non presentarsi alle rappresentazioni del nuovo teatro” (Manifesto per un nuovo teatro, Pier Paolo Pasolini)

Pasolini immaginava per il suo teatro un pubblico non ampio, che sostanzialmente coincidesse con la stessa classe sociale che scriveva, produceva e faceva quel teatro, un teatro che “ha come destinatari gli stessi gruppi culturali avanzati da cui è prodotto” (Manifesto per un nuovo teatro, Pier Paolo Pasolini), con tutto ciò che questo avrebbe comportato.

Pasolini definisce all’interno dal Manifesto il suo nuovo teatro come “teatro di parola”, un teatro quindi completamente incentrato sul testo, che torna ad avere il ruolo di protagonista indiscusso. Tutto il resto, dalla scenografia alle luci, dalle musiche alla stessa messinscena passano in secondo piano o scompaiono del tutto. Ciò che deve risaltare è la parola scritta, il testo poetico, che nella concezione di Pasolini è l’elemento fondante e più importante del teatro.

Pasolini nel suo Manifesto polemizza anche con la parola. Non la parola scritta, ma quella orale, fondamentale a teatro: egli si scaglia contro l’italiano parlato dalla borghesia, che sarebbe a suo dire un italiano “convenzionale”, in nulla simile a quello vero, autentico, parlato dalla classe operaia. La critica pasoliniana colpisce in particolare la dizione, il risultato finale di questa convenzionalità che, secondo l’opinione dello scrittore, toglierebbe ogni vita alla lingua parlata.

Tuttavia, per poter essere comprensibile, il teatro di parola è costretto a cadere in contraddizione: negando esso il dialetto come mezzo di espressione, si vede costretto a piegarsi a quella stessa convenzione che disprezza. Il modo che Pasolini trova per cercare di arginare questa contraddizione in questo caso è affermare che l’attenzione dovrà essere focalizzata non tanto sulla lingua utilizzata ma sul senso delle parole pronunciate.

Quello immaginato e teorizzato da Pasolini era un teatro tanto utopistico quanto le idee di colui che l’aveva realizzato. Un ritorno alle origini che è al contempo un guardare avanti, una negazione dei modelli che però ai modelli si lega e che si vede costretta a servirsene. Un teatro che non vide mai la luce. Perché nonostante i testi ci fossero, questo teatro non venne mai portato in scena, a parte poche eccezioni, che comunque non andarono come l’autore aveva auspicato. Un teatro che già dalla nascita è una contraddizione: Pasolini non amava il teatro, gli si è avvicinato quasi per errore, ma non è più uscito.

La personalità artisticamente a tutto tondo dell’autore ha senza dubbio contribuito a rendere il Nuovo teatro un progetto importante, ambizioso, ma troppo difficile da realizzare, o quanto meno non adatto al contesto in cui stava nascendo.

Ciononostante, l’importanza culturale di questo Manifesto e in generale di questo progetto è stata ed è ancora fondamentale: per le idee, per i testi che ne sono derivati, per il potere di opposizione che ha rivelato, e infine per essere un documento fondamentale che attesta la voglia e la necessità di cambiamento del teatro italiano.
Una critica sferzante che il Corsaro rivolge a tutta quella che era considerata l’élite teatrale del suo tempo. Una critica forse esagerata a tratti, un po’ fuori dalle righe, e un progetto difficilmente applicabile sul piano pratico che tuttavia testimonia il genio intellettuale di Pasolini, che anche in questo ambito riesce a divenire un modello a cui guardare.

Oggi, invece, ciò che si mette in discussione è il teatro stesso: la finalità di questo manifesto è dunque, paradossalmente, la seguente: il teatro dovrebbe essere ciò che il teatro non è” (Manifesto per un Nuovo Teatro, Pier Paolo Pasolini)

Quando ci imbattiamo nella parola “manifesto” – declinata nel suo significato più teorico e in un certo senso più culturalmente carico – subito viene da pensare ai grandi manifesti dei gruppi di artisti, in particolar modo pittori, del Novecento: esiste un manifesto del Surrealismo, firmato da André Breton nel 1924, così come il “nostrano” manifesto del Futurismo scritto da Marinetti; i lettori degli anni ’20 del Novecento potevano sfogliare la rivista De Stijl, fondata da Theo van Doesburg, con la quale venivano resi pubblici  i contenuti programmatici dell’omonima corrente artistica, famosa per avere fra i suoi artisti di punta il pittore Piet Mondrian.

Ma esistono manifesti artistici anche per correnti minori e meno conosciute, come il Suprematismo di Malevič o il programma di Die Brücke, il maggior gruppo espressionista tedesco.

Quasi ognuno di questi manifesti ha anche una sezione dedicata al teatro: ogni movimento artistico infatti, nonostante nell’immaginario collettivo siano rappresentati soprattutto dall’arte pittorica, aveva un programma a tutto tondo, che comprendeva dalla pittura all’architettura, dalla letteratura al teatro.

I manifesti in campo teatrale quindi esistono e sono sempre esistiti, in particolar modo a partire dalla nascita delle Avanguardie.

I manifesti teatrali tuttavia non per forza sono legati a una corrente o a un movimento: essi possono essere scritti anche da gruppi “autonomi” o addirittura da singoli autori – registi o drammaturghi – che se ne servono per esplicitare la loro personale linea artistica e di pensiero.

Tutti i manifesti hanno però alcune caratteristiche in comune. La prima e più facilmente identificabile fra queste è la forma: essi sono testi brevi, generalmente divisi per punti o per argomenti, che spiegano in maniera abbastanza approfondita la forma e le caratteristiche che una determinata corrente teatrale – o artistica – assumerà da quel momento in poi.

Alcuni fra i manifesti teatrali più importanti scritti nel corso del Novecento sono a mio parere il Primo e il Secondo Manifesto del Teatro della Crudeltà di Artaud, il Manifesto del Terzo Teatro di Eugenio Barba, il Manifesto redatto in occasione del Congresso di Ivrea del 1967, il Manifesto per un Nuovo Teatro di Pier Paolo Pasolini, solo per citarne alcuni.
Un altro scritto che a mio parere può essere annoverato fra i manifesti è Per un teatro povero di Jerzy Grotowski: nonostante questo sia una raccolta di scritti e interviste del maestro polacco, cionondimeno ha la stessa funzione di un manifesto, traccia la via seguita da Grotowski lungo tutta la sua carriera e descrive le motivazioni delle sue scelte.

La funzione principale dei manifesti, il motivo stesso per cui vengono scritti, è per marcare una discontinuità rispetto al passato. Gli artisti o i gruppi che avvertono l’esigenza di scrivere un manifesto lo fanno perché auspicano un cambiamento rispetto all’ordine stabilito delle cose.

Se si prendono ad esempio due manifesti come il Manifesto scritto per convocare il Congresso Ivrea del 1967 e il Manifesto per un Nuovo Teatro di Pasolini del 1968 si può vedere subito che entrambi questi scritti vogliono affermare il dissenso dei loro autori nei confronti del teatro ufficiale di quegli anni.

Ma a teatro esistono anche altri tipi di manifesti, e sono le opere stesse: capita che alcuni autori decidano di affidare l’enunciazione e la spiegazione delle loro personali idee artistiche e non solo a un’opera. Ne è un esempio “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello. Oltre a essere uno dei più conosciuti e credo importanti testi teatrali scritti in Italia nel Novecento, questo è anche la personale presa di posizione di Pirandello nei confronti non solo dell’arte, ma della stessa vita.

Penso di poter annoverare anche questo tra i manifesti – nonostante le differenze a livello di forma e in parte anche di contenuti – perché uno dei suoi obiettivi è quello di esprimere l’idea, la personale visione di un autore, visione che vuole essere trasmessa al pubblico. L’unica cosa che cambia è la forma adottata.

Non più un elenco di “regole” cui attenersi o di punti programmatici, ma una pièce che mette in scena una filosofia.

Non esiste una definizione stabile, stabilita, di ciò che sia un manifesto: non ci sono regole che ne limitano forme e contenuti, la somiglianza che li caratterizza è più legata a una convenzione che si è fatta strada nel corso del tempo.

Ciò che a parere mio è indubbio è il valore di questi documenti, capaci di portare avanti in maniera semplice, immediata uno studio alle volte estremamente lungo e complesso. Quello che i manifesti sono in grado di fare è colpire il lettore con idee che vengono fatte sembrare semplici.

In realtà, una volta analizzati, i manifesti sono portatori di una ricchezza culturale estremamente importante. Sono contenitori di idee, tradizioni, novità, riforme e rivoluzioni che, prima di andare in scena come spettacoli o performance, possono raggiungere il pubblico sotto forma di scritto, più distribuibile e più facilmente fruibile.

E credo che l’importanza dei manifesti stia proprio nel loro essere talmente immediati da centrare subito il bersaglio, sia esso a distanza di chilometri, di continenti, di anni o di decenni.