Il teatro alla radio

Ce qui est grave, est que nous savons qu’après l’ordre de ce monde il y en a un autre. Quel est-il ? Nous ne le savons pas” [Quello che è grave, è che noi sappiamo che dopo l’ordine di questo mondo ce n’è un altro. Quale? Non lo sappiamo.] (Antonin Artaud, Pour en finir avec le jugement de Dieu)

Per concludere il ciclo di articoli dedicati ad Artaud e all’avanguardia francese ho pensato di parlare dell’ultimo lavoro di questo artista: il progetto per un programma radiofonico.

Pour en finir avec le jugement de dieu è stato ideato, scritto e registrato da Artaud fra il 22 e il 29 novembre 1947, e avrebbe dovuto essere mandato in onda dalla RDF (Radio diffusion Française) il 1 febbraio 1948. Oltre a essere l’ultimo lavoro, questo è stato anche l’ultimo fallimento di Artaud: il programma, infatti, a causa dei contenuti, non venne mai diffuso.

Sebbene concepito come un programma di radiodiffusione, questo testo mantiene le caratteristiche tipiche delle opere teatrali artaudiane, collegabili in particolar modo all’ultima fase dell’elaborazione artistica di Artaud.

L’opera è divisa in cinque parti, lette e interpretate da quattro voci, due maschili e due femminili. L’introduzione è letta dallo stesso Artaud, così come la conclusione.

Il tema trattato nell’introduzione è una forte e tagliente critica alla società americana, accusata di imperialismo e di essere disposta a tutto pur di rafforzare i propri possedimenti intorno al globo.

L’interpretazione della seconda parte è affidata a Maria Casarès, attrice e grande amica di Artaud. Il testo da lei letto si intitola “La dance du Tututguri” e parla dell’esperienza del peyotl (una radice allucinogena usata dalla tribù dei Tarahumara in Messico che Artaud aveva sperimentato in occasione del suo viaggio in quelle terre) in chiave totalmente negativa, riallacciandosi all’abiura di Artaud e alla suo credere nell’esistenza di un complotto mondiale ordito contro la sua persona.

Questo è uno degli episodi più controversi della biografia artaudiana: egli aveva sempre amato moltissimo ed era rimasto estremamente legato alle esperienze fatte durante il viaggio in Messico. Il giro di boa era avvenuto durante gli anni dell’internamento: egli era giunto alla conclusione che non esistesse nessun tipo di magia, nessun tipo di iniziazione possibile per eventi legati al soprannaturale. E che insomma il soprannaturale non fosse in realtà che un’invenzione di quegli stessi stregoni che lo avevano imbrogliato con le loro tradizioni e gli avevano fatto credere di essere stato iniziato a qualcosa che in realtà non esisteva. Da qui quindi l’esigenza di rileggere l’intera esperienza vissuta presso i Tarahumara con un’ottica completamente negativa, quasi fosse, anch’essa, un ulteriore fallimento.

Il terzo testo veniva letto da Roger Blin, e si intitolava “La recherche de la fecalité”. A prestare la voce al quarto testo era invece Paule Thévenin, l’unica non-attrice del gruppo.

La conclusione, come già detto, era letta da Artaud, ed è qui che egli giungeva alla teorizzazione del corpo senz’organi e della nuova funzione del teatro.

“L’homme est malade parce qu’il est mal construit” [L’uomo è malato perché è mal costruito] (Antonin Artaud, Pour en finir avec le jugement de Dieu)

Come in tutti i lavori di Artaud successivi all’internamento, anche in questo emergono alcune tematiche fondamentali e ricorrenti. Prima di tutto si fa qui evidente la ricerca metodologica portata avanti da Artaud in quegli anni, che affermava l’importanza di una serie di nuove tecniche vocali ma non verbali come glossonalie, xilofonie verbali e xilofonie strumentali: tutte le parti interpretate sono infatti intervallate da questi esercizi vocali, che possono andare dal semplice urlo a una modulazione vocale più strutturata, che tuttavia restano totalmente privi di senso e di musicalità, ma che rappresentano la grande novità introdotta da Artaud in questa ultima fase del suo lavoro. Ritorna poi il tema fondamentale di quegli anni: la malattia insita nell’uomo suo contemporaneo e la ricerca di un nuovo mezzo di salvezza.

Per l’ultima volta e in modo ancora più concreto Artaud afferma qui di aver trovato la cura a questa epidemia che contagia la società mondiale: il teatro.

Negli ultimi momenti della parte conclusiva dell’opera egli teorizza la creazione di un corpo senz’organi, a suo parere l’unico modo per salvare e liberare gli esseri umani e la società intera dalle patologie da cui erano affette. Artaud afferma qui che un corpo senza organi significherebbe un corpo libero, senza automatismi, capace finalmente di trovare la sua strada e il suo posto.

“Lorsque vous lui aurez fait un corps sans organes, alors vous l’aurez délivré de tous ses automatismes et rendu à sa véritable liberté. Alors, vous lui réapprendrez à danser à l’envers, comme dans le délire des bals musettes, et cet envers sera son véritable endroit” [Quando gli avrete fatto un corpo senz’organi, allora l’avrete liberato da tutti i suoi automatismi e reso alla sua vera libertà. Allora, voi gli rinsegnerete a danzare alla rovescia, come nel delirio dei balli popolari, e questo rovescio sarà il suo vero posto] (Antonin Artaud, Pour en finir avec le jugement de Dieu)

Pour en finir avec le jugement de Dieu:

 

“Dichiaratamente o no, consciamente o no, ciò che in fondo il pubblico cerca nell’amore, nel delitto, nelle droghe, nella guerra o nell’insurrezione è uno stato poetico, una trascendente esperienza vitale” (Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio)

La Crudeltà a Teatro è un concetto fondamentale quando si parla di Artaud.

Egli ha continuato a sviluppare questa teoria per buona arte della sua vita, a partire dai primi anni ’30 fino alla morte, nel 1948. Il suo Teatro della Crudeltà – così viene definito – si può dividere il due fasi: il Primo Teatro della Crudeltà, sviluppatosi negli anni ’30 e il Secondo Teatro della Crudeltà, teorizzato in seguito alla reclusione presso due ospedali psichiatrici, prima a Parigi e in seguito a Rodez.

Ho scelto di soffermarmi qui sul Secondo Teatro della Crudeltà, in quanto ritengo che in questa seconda fase Artaud abbia raggiunto livelli di consapevolezza estremamente alti e complessi, sul teatro e su sé stesso, che sarebbe utile riprodurre anche nel teatro contemporaneo.

Come nel caso del Primo Teatro della Crudeltà, anche in questo secondo momento Artaud scrive e pubblica un Manifesto, nel quale descrive i suoi obiettivi, i suoi progetti, parla dei mezzi e delle modalità che vorrebbe utilizzare, dei risultati cui vorrebbe giungere.

Il tutto senza risparmiare un’acuta critica al teatro e alla società del suo tempo.

Ciò che muove Artaud nella teorizzazione di questo Secondo Teatro della Crudeltà sono primariamente le esperienze di cui è stato vittima durante i 9 anni di internamento. In particolare, egli si è convinto dell’esistenza di un complotto mondiale ordito contro di lui e che aveva causato il suo ingiustificato internamento. Ancora più che in altri suoi lavori, in questo Manifesto Artaud esprime il bisogno di una rifondazione del teatro su basi nuove e che tuttavia guardino al passato, all’autenticità ormai andata perduta di un teatro che sta scomparendo sotto il peso del cinematografo e delle nuove tecnologie.

Il Manifesto artaudiano è diviso in due parti distinte: la prima relativa al contenuto, la seconda relativa alla forma.

In questo saggio Artaud descrive la cifra stilistica del suo lavoro: quello che vuole creare è un teatro che si occupi della contemporaneità, dei problemi degli uomini e delle donne del suo tempo, un teatro che possa curare le anime e i corpi, ma al tempo stesso che per fare ciò non usi i mezzi propri del suo tempo ma guardi a mezzi antichi, presi dalle culture orientali ancora legate a tradizioni quasi ancestrali.

Questa tecnica dovrebbe, secondo Artaud, permettere alla cultura teatrale di non scomparire sotto la sempre maggiore forza dei nuovi media.

Un tema molto caro ad Artaud e che viene qui ripreso è l’uso della parola a teatro e la funzione che essa ha o può avere. In particolare, la critica che Artaud muove al teatro del suo tempo è quella di basarsi troppo sulla parola, di renderla l’unica e vera protagonista e di lasciare in disparte tutto il resto. Artaud, pur essendo convinto dell’importanza di testo e parola a teatro, teorizza una forma spettacolare basata più su ciò che fisicamente avviene in scena, sulla presenza degli attori, sulla loro espressività, su ciò che il pubblico vede e percepisce.

La parola in questo modo non è più il punto cardine dello spettacolo, ma diventa un mezzo, al pari di luci e movimenti.

Artaud inoltre teorizza la creazione di spettacoli in cui non vi sia alcun tipo di divisione tra attori e pubblico. Lo spettacolo, secondo Artaud, dovrebbe svilupparsi non davanti agli spettatori, ma in mezzo a questi. Per questo scopo egli teorizza la scomparsa della scena come veniva concepita allora: non più palcoscenico, non più costumi, non più scenografia, ma solo presenza: presenza di attori che si muovono in mezzo al pubblico, presenza di luci e suoni in grado di veicolare i sentimenti dagli e agli spettatori, presenza infine degli spettatori stessi che, accerchiati dallo spettacolo, entrano a farne parte al pari degli attori e delle luci, vivendo quasi un’esperienza mistica, o, in ogni modo, totalizzante.

Un teatro, quello teorizzato da Artaud, che abbia la capacità di

“rendere attuali gli antichi conflitti”.

Un teatro che diventa cura attraverso la presenza e la partecipazione emotiva degli spettatori, che sono qui chiamati a sentire lo spettacolo a cui partecipano. Il loro sarà non una partecipazione asfittica, mediata da una quarta parete, ma una partecipazione vera, reale, autentica, che gli lasci qualcosa, che arrivi a cambiarli, a modificare ciò che sono e il loro modo di vedere e approcciarsi al mondo.

Un teatro insomma che non sia spettacolo, ma cura. Cura per il singolo così come per il gruppo; per l’attore così come per lo spettatore o il regista.

Un teatro, infine, in grado di rifondare quella stessa società di cui fa parte in modo da poter contrastare le nuove malattie dello spirito e del corpo divenute ormai epidemiche.

Ritengo che la nuova necessità manifestata da Artaud di creare un teatro utile ed efficace sia nata primariamente dai suoi stessi bisogni, dal suo volersi curare e dal suo aver trovato una cura in quello stesso teatro con cui aveva avuto un rapporto estremamente conflittuale per tutta la vita.

“Così composto e così costruito, lo spettacolo, grazie alla soppressione della scena, si estenderà alla sala intera del teatro, e, partito dal suolo, si arrampicherà sui muri mediante leggere passerelle, avvolgerà fisicamente lo spettatore, lo terrà in un’atmosfera ininterrotta di luce, di immagini, di movimenti e di rumori. La scena sarà costituita dai personaggi stessi, cresciuti sino alle dimensioni di giganteschi fantocci, e da paesaggi di luci mobili, agenti su oggetti e maschere in continuo spostamento” (Artaud, Il Teatro e il suo doppio)

“La più grande debolezza del pensiero contemporaneo mi sembra risiedere nella sopravvalutazione esagerata del conosciuto rispetto a ciò che rimane da conoscere” (André Breton)

Spesso quando si parla di avanguardia si pensa a un gruppo di pazzi con idee bizzarre, non interessati alle regole della società civile che lottano (spesso nel vero senso del termine) per affermare le loro strambe teorie.
Esiste, o almeno credo, la possibilità che dietro ci sia dell’altro.

Se parliamo di avanguardia a teatro il primo luogo a cui penso è senza dubbio la Francia del periodo tra fine ‘800 e inizio ‘900, patria di alcuni fra i più importanti avanguardisti Novecenteschi, da André Antoine e André Breton fino a Jacques Copeau e Charles Dullin.

Un risultato – a mio parere il più importante – a cui si è giunti grazie all’avvento delle avanguardie e che vale la pena citare è l’invenzione della regia.

La data simbolica della nascita della regia è il 1899, e colui che viene designato come inventore di questa immensa novità è il ginevrino Adolphe Appia.
In verità le cose sono un po’ più complesse: la regia non è stata inventata dall’oggi al domani con una dissertazione teorica, ma è il risultato di un lungo processo iniziato nel corso dell’800 con la Compagnia dei Meininger, portato avanti dal Teatro d’Arte di Stanislavskij e finalmente giunto a compimento – o pieno riconoscimento – con il lavoro di Appia.

Vero è che l’idea di un controllo di ciò che viene messo in scena è un concetto precedente, ma la figura del regista compie qui un salto avanti: il regista non è soltanto colui che regola le entrate, le uscite e le posizioni da tenere sul palcoscenico, ma una figura che ha il potere di dare un’interpretazione, di guidare gli attori nel modo in cui recitano, che insomma ha il compito di creare un’opera d’insieme, di cui egli controlla tutte le sfumature.

Avanguardia tuttavia non è soltanto questo: avanguardia significa anche nascita di pensieri, sviluppo di idee e tecniche che porteranno alla rifondazione del teatro su basi valide ancora oggi.
Si può citare tra queste la rivoluzione della scenografia – che da ora in poi sarà costruita e non dipinta – operata da André Antoine, oppure le concezioni dello stesso Appia che afferma l’importanza della musica e di un uso poetico della luce nella costruzione dello spettacolo.
Avanguardia, poi, è anche nascita di gruppi, come ad esempio il Dadaismo (1916) del ginevrino Tzara e il Surrealismo (1924) del francese André Breton.
Quest’ultimo è stato anche, almeno nella prima parte della sua esperienza con i surrealisti, un fautore del mezzo teatrale: il gruppo accoglieva infatti uomini di teatro del calibro di Artaud e Roger Vitrac, autore tra l’altro di uno dei primi spettacoli surrealisti, e forse il più importante.

Victor ou les enfants au pouvoir viene messo in scena per la prima volta il 24 dicembre 1929 alla Comédie des Champs-Elysées, con la regia di Artaud e gli attori della compagnia del Teatro Alfred Jarry. La storia narrata nella pièce è semplice quanto bizzarra: è il compleanno di Victor, bambino di 9 anni alto 1,90.
Durante la festa di compleanno, cui partecipano la famiglia di Victor e quella di un’amica del ragazzo, vengono alla luce retroscena imbarazzanti riguardanti relazioni extraconiugali che porteranno anche al suicidio di uno dei personaggi.
Il vero intento della pièce – in puro stile surrealista – è sferrare un attacco alla società borghese colpendola nei suoi punti nevralgici: famiglia, Stato e religione. Lo stesso Victor rappresenta nelle intenzioni di Vitrac un prodotto della borghesia: è una storpiatura che la società tutta tenta di nascondere sotto una parvenza di normalità.

Credo di poter affermare che l’Avanguardia non sia stata solo un movimento guidato da pazzi, ma un vero e proprio trampolino che ha portato a un’innovazione sentita e necessaria.

Nata in un periodo tutt’altro che facile per la storia dell’Europa, l’Avanguardia si è assunta il compito di trovare una risposta ai nuovi interrogativi e alle nuove problematiche che venivano pian piano ponendosi. Il fatto di trovarsi in un periodo particolare, caratterizzato da paure e incertezze non sperimentate prima ha spinto i gruppi d’avanguardia a ricercare nuovi metodi, nuovi percorsi per esprimere nuovi sentimenti e per combattere attraverso l’arte il nulla che vedevano nella società a loro contemporanea.

Certo, i risultati, spesso estremamente bizzarri e grotteschi, possono piacere o no. Credo tuttavia che per quanto riguarda questo movimento l’importante non sia tanto il risultato, quanto il processo.

Un processo che ha spinto gli artisti a voler rifondare l’arte, a volte affermandone l’inutilità, altre invece il potere salvifico; alle volte volendo distruggere o dimenticare quanto era stato fatto fino a quel momento, altre cercando di giungere all’ammodernamento del classicismo, altre ancora cercando di tornare all’età medievale.

Risposte giunte al momento giusto, che hanno portato non tanto alla nascita di un movimento unitario, ma al proliferare di esperienze che hanno rifondato il settore artistico portandolo a livelli nuovi, impensabili fino a vent’anni prima, ma necessari per interpretare una società europea sull’orlo dello sgretolamento e del collasso.

“C’è un rischio, indubbiamente, ma ritengo che nelle circostanze attuali valga la pena correrlo. Non credo si possa arrivare a ridar vita al mondo in cui viviamo, e non credo neppure che valga la pena aggrapparsi ad esso; ma propongo qualcosa per uscire dal marasma, invece di continuare a gemere sul marasma, e sulla noia, l’inerzia e la stupidità di ogni cosa” (A. Artaud, Il teatro e il suo doppio)

Il 4 marzo 1948 ci lasciava quello che a parere mio è stato uno dei più importanti personaggi della scena teatrale della prima metà del Novecento, Antonin Artaud.

Definito da Barrault l’“uomo-teatro”, Artaud ha dedicato la sua intera esistenza a questa disciplina, dando un contributo fondamentale al modo in cui il teatro viene oggi concepito, messo in pratica e studiato. Egli è stato attore, drammaturgo, regista, scrittore, disegnatore, uomo di cinema, viaggiatore e antropologo. Per dirla in parole brevi Artaud è stato un artista a tutto tondo, che ha provato, sperimentato, e soprattutto cambiato idea.

Nato il 4 settembre 1896 a Marsiglia, all’età di 4 anni Artaud venne colpito da una grave forma di meningite che avrebbe poi compromesso la sua vita futura. Nel 1920, a seguito del trasferimento a Parigi, Artaud inizia a frequentare l’élite culturale dell’epoca. Egli si lega in special modo al gruppo Surrealista guidato da André Breton. Con loro Artaud inizia a lavorare alla sua personale visione di teatro mettendo in scena tra l’altro i primi spettacoli teatrali surrealisti, tra cui Victor ou les enfants au pouvoir e collaborando alla creazione del primo film del gruppo, La conquille et le clergyman (1928) anticipando i maestri del genere, Buñuel e Dalì. La sua avventura nel movimento surrealista tuttavia non dura a lungo: le sue opinioni, parecchio divergenti da quelle di Breton, portano a una travagliata rottura, consumatasi sulle pagine dei pamphlets scritti da entrambi per sancire la rottura.

In particolare, Artaud si opponeva alla visione del “gran sole dell’avvenire” profetato dal partito comunista, preferendo parlare della “grande notte” che stava colpendo la società occidentale.

Per tutta la sua vita Artaud si è dimostrato una persona rotta da insanabili contraddizioni che lo hanno portato a non fermarsi mai, a progredire sempre nel suo percorso artistico, ad andare oltre nonostante tutte le avversità che gli si sono presentate.

Ed è proprio forse nella sua contraddittorietà che egli ha trovato la sua forza, il motore che lo spingeva ad andare avanti. Egli viveva in un mondo a suo parere giunto al capolinea, insalvabile, che non avrebbe portato a nulla, e ritengo che sia stato proprio questo a spingerlo a perseverare nei suoi tentativi, anche se fallaci.

Immerso in una società che ha perso i punti cardinali, che non sa da che parte andare e che probabilmente sta spingendosi troppo avanti quando l’unica cosa di cui avrebbe bisogno sarebbe fare alcuni passi indietro, Artaud ha creduto di poter avanzare nella direzione a suo parere corretta non rispettando le regole che venivano imposte.

“Ma è evidente ora da troppi indizi che tutto ciò che ci faceva vivere non regge più, che siamo tutti pazzi, disperati, malati. E io ci invito a reagire” (A. Artaud, Il teatro e il suo doppio)

Dalla fine degli anni ’30 fino alla morte, ciò che più ha segnato la vita di Artaud è stata la malattia. Nel 1937, al ritorno da un viaggio in Irlanda, egli venne internato in un ospedale psichiatrico di Parigi, dove restò confinato per quasi tutti gli anni della Seconda Guerra Mondiale. Solo sul finire della guerra egli riuscì a farsi trasferire in un ospedale psichiatrico nel sud del Paese, a Rodez, dove poté finalmente ricominciare un’esistenza vicina alla normalità. Durante gli anni di internamento Artaud si convinse dell’esistenza di un complotto mondiale ordito contro di lui, che matto non lo era mai stato, semmai eccentrico, irrispettoso dei canoni, ma che mai si era spinto al di là di qualche bravata in pubblico.

Questa idea del complotto incise in maniera molto forte sul pensiero e sul lavoro che egli fece una volta giunto a Rodez.

Nella sua ultima lettera, scritta il 24 febbraio 1948, Artaud lascia la sua ultima immagine, quella di un teatro utile e necessario, che a ogni rappresentazione deve lasciare qualcosa a livello corporeo a chi lo guarda e a chi lo fa, un teatro che non imita la vita, ma la fa, la crea. Sempre in questa lettera Artaud promette di lasciare perdere tutto quanto, e di dedicarsi solo ed esclusivamente al teatro.
In realtà non riuscì a rispettare questa sua promessa. Egli morì circa una settimana dopo, il 4 marzo 1948. Venne ritrovato seduto, di fronte al letto, con una sua scarpa in mano.

Quello che a mio parere viene troppo spesso messo da parte quando si parla di Artaud è la poesia che irradia dalla sua figura e dai suoi testi. La poesia di un uomo reale, sebbene non comune. La poesia che nel suo caso scaturiva da una contraddizione, dal suo non voler scegliere una sola prospettiva da cui guardare le cose, dal restare sempre aperto a nuovi stimoli. La poesia che derivava anche dal tipo di vita che conduceva, quel suo continuo sfidare le regole e i limiti imposti, quel suo voler essere oltre, sempre, anche dopo il manicomio.

Se penso ad Artaud mi viene in mente l’immagine di un uomo che cammina per le strade di Parigi, con il bastone in mano, che passa davanti ai café dei letterati, alle volte, perché no, insultandoli.

Un uomo all’apparenza come tanti, del quale, tuttavia, si nota quasi inavvertitamente il portamento, principesco, regale, che nella prima parte della sua vita gli aveva permesso di interpretare ruoli da re in diverse produzioni. E tuttavia una regalità in contrasto con il suo reale stile di vita, povero, quasi indigente.

Spesso quando si parla di Artaud si parla di “doppi” (scrittore, pittore, uomo di cinema…), ma a mio parere oltre a questi ne esiste un altro, ed è l’Artaud sognatore, che ha lottato tutta la sua vita per affermare la rivoluzione in cui credeva. Una rivoluzione che doveva originarsi dal e nel teatro. Un Artaud utopista, nonostante tutto.

Una delle ultime immagini che Artaud ha lasciato prima di morire è quella del “corpo senza organi”, di un corpo cioè liberato da tutti gli automatismi di cui è vittima.

Trovo rilevante il fatto che questa immagine nasca dopo gli anni di internamento, perché dimostra quello che, a seguito di tante sofferenze, era forse l’ultimo e forse più complesso progetto di Artaud: liberare l’uomo da tutto, perfino da sé stesso. Riportarlo a livelli di libertà che gli avrebbero permesso di rimparare a muoversi, a danzare finalmente libero, come lui non è mai stato.

“Quando gli avrete fatto un corpo senza organi voi l’avrete liberato da tutti i suoi automatismi e reso alla sua vera libertà. Allora voi gli rinsegnerete a danzare alla rovescia come nel delirio dei balli popolari, e questo rovescio sarà il suo vero posto” (A. Artaud, Pour en finir avec le jugement de Dieu)