C’è un motivo per cui si preferisce Berlino ad altre città: perché è in costante evoluzione. Ciò che oggi non funziona, può essere migliorato domani” (Bertolt Brecht)

Dal tempo in cui Brecht era uno dei più conosciti registi di Berlino molte cose sono cambiate, sotto molti punti di vista. Oggi Berlino è tornata ad essere una città unita, il Muro è ormai un ricordo e la storia ha preso tutta un’altra strada. C’è però qualcosa che è rimasto invariato: Berlino continua a essere una delle più importanti capitali europee della cultura. E questo è un processo nato già prima del Berliner di Brecht, ma che da quel periodo storico ha senz’altro preso forza. La posizione geografica, il fatto di trovarsi nel cuore pulsante dell’Europa ha reso Berlino un vero crocevia per i viaggi verso l’Oriente così come per quelli verso Occidente, e gli incontri e gli scambi che sono avvenuti sul suolo della capitale tedesca hanno lasciato un’impronta indelebile sulla città.

Ancora oggi possiamo dire che il valore culturale della capitale tedesca è molto alto, forte di un’offerta culturale a tutto tondo e privo di barriere all’accesso troppo importanti. E questo è vero non solo per l’arte in generale, ma anche per il teatro. Oggi Berlino conta circa 40 teatri, ognuno con una programmazione autonoma che spazia dall’opera alla prosa, dalle esperienze più classiche alla performatività di stampo più contemporaneo.

Berlino è poi un punto di ritrovo per artisti: sono infatti molti, provenienti da tutto il globo, a incrociare i loro cammini sul suolo della città tedesca, aumentandone in questo modo il livello culturale e la forza di attrazione.

Sebbene la fortuna di Berlino come città delle arti si sia originata più indietro nel tempo, è con il Novecento che Berlino trova la sua vera dimensione artistica: la città è fortemente plasmata dalla presenza di alcuni fra gli intellettuali e artisti più importanti del secolo, a partire da Gropius che per un paio di anni vi stabilisce il suo Bauhaus, fino a Erwin Piscator, eclettico regista teatrale che ha legato tutta la sua vita alla capitale tedesca, sia prima che dopo la Seconda guerra mondiale.

E proprio di questi due grandi nomi della cultura era il progetto – mai realizzato – del Teatro totale: un’immane struttura semovente in grado di inglobare la platea degli spettatori all’interno di un meccanismo in grado di far cambiare foggia alla sala a seconda delle necessità.

Il teatro di Piscator è uno degli esempi che ritengo più calzanti quando si parla della novità culturale rappresentata da Berlino nei primi decenni del Novecento: l’idea che ha mosso il regista è stata quella di arrivare a costituire un teatro di massa, un teatro in cui tuttavia il pubblico non fosse solo spettatore, ma partecipe.

L’idea del teatro di massa si salda in Piscator con l’ideologia comunista, e il risultato è un teatro fortemente politicizzato che tocca uno dei suoi apici con lo spettacolo “Oplà, noi viviamo!” (1927), con testo di Ernst Toller e la regia curata dallo stesso Piscator.

E questo è solo un esempio per sottolineare la qualità della temperie culturale che aleggiava intorno a Berlino nei primi decenni del Novecento. Tutto questo viene però bruscamente arrestato dall’arrivo al potere di Hitler e dalla Seconda guerra mondiale. Quella che si trova alla fine della guerra è una città distrutta, e che tuttavia dimostra di essere in grado di ricostruirsi, anche dal punto di vista culturale. Il rientro in patria di alcuni grandi nomi, fra cui Brecht e il già citato Piscator, danno una svolta importante alla rinascita culturale della città.

L’ultimo e grande passo in avanti avviene con la caduta del Muro: dopo il 1989 Berlino, di nuovo unita, può finalmente tornare a concentrarsi sul suo sviluppo e riprendersi il suo ruolo di crocevia artistico. Cosa che ha continuato a fare fino a oggi.

Oggi Berlino è un centro nevralgico per la produzione di spettacoli – teatrali e musicali – di ogni genere. In particolare, Berlino ha sviluppato in maniera quasi capillare una cultura underground che oggi la rende famosa in tutta Europa. Ma Berlino oggi non è solo underground: è anche prosa, opera, arti visive, performatività. Una città che è rinata dalle sue ceneri e che ha dimostrato come attraverso e grazie alla cultura le città possano concedersi una nuova vita.

Come tutte le cose buone, anche la guerra, da principio, è difficile. Ma poi, quando ha attaccato, tien duro. Allora la gente ha paura della pace, come chi gioca ai dadi ha paura di smettere perché viene il momento di fare i conti, di vedere quanto s’è perduto” (Bertolt Brecht, Madre Courage e i suoi figli)

Forse uno degli affreschi più foschi che Brecht abbia mai composto sul genere umano, Madre Courage e i suoi figli vede la luce alla fine degli anni ‘30, durante il periodo dell’esilio in Svezia. Quest’opera – uno dei lavori più conosciuti dell’autore – è anche uno dei più chiari esempi di quello straniamento che Brecht ha portato all’interno dei suoi lavori.  È la storia di Anne Fierling, soprannominata Madre Courage, una carrettiera che vende le sue merci al seguito degli eserciti impegnati in guerra. La guerra in questione è quella dei Trent’anni, metafora lontana ma non troppo del periodo storico in cui Brecht scrive l’opera.

Madre Courage è sola, con tre figli, a fare un lavoro prettamente maschile. Ma lei non ha paura, quella che ci si presenta davanti non è il classico prototipo di donna. Madre Courage è abituata alla vita che conduce, si può dire che in realtà le piace, che il vivere a stretto contatto con la guerra sia normale e addirittura positivo per lei, e che l’unica cosa cui tenga davvero siano le sue merci. E proprio questa sua devozione al commercio sarà anche la causa di tutte le sue disgrazie.

L’opera è strutturata in quadri, secondo lo stile di Brecht: questi quadri non sono legati temporalmente e non seguono una precisa logica narrativa. Si tratta di quadri indipendenti l’uno dall’altro, posti sì in ordine cronologico, ma completamente slegati l’uno dall’altro anche da intervalli di anni. L’inizio di ogni quadro viene segnalato in scena con cartelli esplicativi su cui il pubblico può leggere una breve introduzione alla scena e il tempo intercorso tra il quadro precedente e quello che si va ad aprire. La storia ha inizio nel 1624. In pieno periodo di guerra. E già in questo primo quadro risulta chiaro il tono che avrà l’intera tragedia.

La pace è roba da rammolliti: non c’è che la guerra per mettere ordine. In tempo di pace l’umanità fa cilecca” (Bertolt Brecht, Madre Courage e i suoi figli)

L’antifrasi è la vera protagonista linguistica di tutto il testo. Questo è uno dei metodi usati da Brecht per far emergere quel senso di straniamento che deve pervadere il pubblico in sala: affermare il contrario di ciò che si vuole, oltre che a creare un senso di disagio in chi ascolta, ha il pregio di portarlo a riflettere, a dirsi in disaccordo con chi pronuncia quelle parole.

Madre Courage si rivela essere un personaggio funzionale: bravo mercante, madre che difende i figli perché sente di doverlo fare, completamente disinteressata alle regole sociali più basiche – conosce i padri dei suoi figli, ma li confonde l’uno con l’altro – pronta a tutto pur di racimolare qualche soldo o qualche merce.

Durante lo svolgersi della tragedia, Madre Courage perderà tutti i suoi figli, e tutti a causa del suo amore per il denaro.

Brecht è molto attento però a sottolineare un punto a questo riguardo: Madre Courage non è una persona cattiva o una pessima madre. Sebbene lo spettatore sia impossibilitato a immedesimarsi in questa figura, Brecht sta attento a fare in modo però che non venga percepita come una figura completamente negativa. In certi frangenti Madre Courage si dice e si dimostra disposta a difendere i figli con le unghie e con i denti, ma c’è sempre qualche inconveniente, qualche piccolo dettaglio che fa emergere il mercante che è in lei – che comunque resta sempre il suo istinto primario, prima ancora di quello materno. Madre Courage è costretta ad assistere allo sfacelo della sua famiglia lasciandosi andare solo a pochi gesti di disperazione, a pochi ripensamenti tardivi, che però portano il pubblico ad averne pietà più che disprezzo. Madre Courage è incapace di imparare dai suoi errori. E continua a ripeterli fino a non avere più nulla. Un figlio convinto con l’inganno ad arruolarsi mentre lei controlla il valore di una merce, un figlio fucilato perché lei mercanteggia troppo a lungo il prezzo con cui corrompere l’unico soldato in grado di salvarlo, la figlia sorda e muta infine che si sacrifica per salvare una città dall’assedio. Ma Madre Courage non se ne accorge, o pare non accorgersene. Tutto quello che può fare è ripartire, col suo carretto in spalla, sempre alla ricerca di nuovi conflitti, di nuovi eserciti e di nuove merci, come in un circuito senza fine che non le permette di essere veramente partecipe degli avvenimenti che la circondano, sempre e solo impegnata a fare affari con la violenza e a scapito di tutti, incapace di guardare alla sua vita passata e di trarne il benché minimo insegnamento, il che, forse, è la sorte più triste e al contempo una delle più grandi colpe dell’uomo.

Madre Courage perde la figlia e continua da sola. Per molto tempo ancora la guerra non sarà finita” (Bertolt Brecht, Madre Courage e i suoi figli, nota introduttiva all’ultima scena)

Si può dire in generale che a noialtri, gente comune, vincere o perdere ci costa caro lo stesso. La cosa migliore per noi, è quando la politica non fila bene” (Bertolt Brecht, Madre Coraggio e i suoi figli)

Considerato – credo a ragione – uno degli autori e registi più influenti del Novecento, Brecht impersona perfettamente il suo tempo, sia da un punto di vista biografico che artistico.

Eugen Berthold Friedrich Brecht nasce nel 1889 nella città di Augusta. Dopo la giovinezza passata a Monaco, nel 1922 Brecht si stabilisce a Berlino, che in quel momento si trovava ad essere la capitale culturale della Repubblica di Weimar. Qui il giovane Brecht può entrare in contatto con gli intellettuali – letterati e uomini di teatro – dei gruppi avanguardistici più importanti della città.

In seguito a questo primo incontro la scrittura di Brecht si orienta fortemente verso l’avanguardia.

Fin dalle prime esperienze di scrittura tuttavia Brecht rielabora i principi dell’avanguardia e li traspone con uno stile particolare, preludio di quello che sarebbe diventato il Teatro epico.

A Berlino Brecht si avvicina anche alle ideologie socialiste. Le opere che scrive in quegli anni – sempre più schierate politicamente – fanno sì che egli non sia visto di buon occhio dal governo di Hitler. Nel 1933 Brecht è infatti costretto a scappare dalla Germania. Fino al suo ritorno in patria – che avverrà nel 1948 – Brecht si sposta e soggiorna nelle principali capitali europee, da Parigi a Vienna, dalla Svizzera alla Danimarca. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale Brecht si stabilisce invece nelle regioni scandinave, dove compone le sue opere più famose. A causa dell’aggravarsi della situazione in Europa, nel 1941 Brecht attraversa la Russia e da lì arriva negli Stati Uniti. Qui tuttavia Brecht fatica a trovare la sua dimensione: le ideologie teatrali delle avanguardie europee sono lontane e il loro peso culturale è stato sostituito dal cinema di Hollywood.

È solo dopo la fine della guerra che Brecht può finalmente tornare a casa, in una Berlino distrutta e irrimediabilmente divisa anche da un punto di vista politico. Egli decide – in linea con le sue idee politiche – di stabilirsi a Berlino est, dove diviene Direttore di un teatro molto importante in città, il Berliner Ensemble, che inaugura con una rappresentazione della sua celebre “Opera da tre soldi”.

Il clima sempre più soffocante imposto dal comunismo porta Brecht a essere critico nei confronti di quel regime, senza tuttavia mettere mai in discussione il marxismo: l’ideologia va difesa, semmai è l’interpretazione che ne dà il governo di Mosca a dover essere messa in discussione. Brecht tuttavia non entra mai in aperto conflitto con il regime di Stalin e dedica il resto della sua vita al teatro, fino alla sua morte, avvenuta nel 1956.

Brecht ha vissuto in prima persona il clima di divisione e di scarsa appartenenza provocato dalla Seconda guerra mondiale e dal periodo del dopoguerra. E proprio di questo senso di straniamento egli ha fatto la pietra miliare di tutta la sua arte.

Invocando un nuovo teatro si invoca un nuovo ordine sociale” (Bertolt Brecht, Scritti teatrali)

Come artista Brecht nasce e cresce nel contesto berlinese. È però con la guerra e il conseguente esilio forzato che Brecht arriva alla formulazione di quello stile che lo ha poi contraddistinto. Mentre è solo dopo il ritorno a Berlino est che Brecht può finalmente iniziare a tutti gli effetti la sua attività di regista presso il Berliner Ensemble, il “teatro stabile” della città.

L’idea di teatro che Brecht ha maturato negli anni dell’esilio è una forma teatrale che porta a soluzioni completamente nuove e al di fuori di qualsiasi schema preesistente.

Il nuovo teatro che va in scena al Berliner è – come lo definisce lo stesso Brecht – teatro epico. Non tuttavia epico nel senso antico del termine: ci si troverà semmai di fronte a rappresentazioni popolari, che ben poco hanno a che fare con il teatro che gli spettatori di Berlino erano abituati a vedere.

Il teatro epico di Brecht si basa su alcune caratteristiche fondanti, come la massiccia presenza di antifrasi, l’utilizzo di un linguaggio popolare, l’uso di canzoni, di scene sconnesse l’una dall’altra e una particolare tecnica recitativa messa in pratica dai suoi attori. L’effetto che ne deriva – lo straniamento – ha diverse ragioni d’essere nel pensiero teatrale di Brecht. Innanzitutto, il teatro per Brecht doveva essere sociale, in contrapposizione alla grandeur degli spettacoli che di solito popolavano i teatri berlinesi.

Ma per essere sociale il teatro ha bisogno di una caratteristica fondamentale: deve far pensare e riflettere gli spettatori. Ed è per questo che Brecht ha ideato la tecnica attorica dello straniamento. Un attore completamente calato nella parte porta il pubblico a immedesimarsi, e una volta immedesimati gli spettatori non mettono in discussione le parole o le azioni dei personaggi. Se l’attore stesso invece non si riconosce in quello che dice o che fa l’effetto è completamente diverso. Senza l’elemento di completa adesione al personaggio, anche gli spettatori mettono in discussione quanto avviene davanti a loro. E questa messa in discussione è esattamente il risultato cui Brecht vuole arrivare. Un teatro che non dà nulla per scontato, che fa riflettere, che non viene accettato per quello che è. Un teatro che stimola domande. Questo risultato pare particolarmente importante se calato nel contesto storico in cui si sviluppa: è come se la Berlino est del dopoguerra avesse avuto bisogno di questo, di non lasciarsi andare alle disgrazie appena vissute, ma di essere consapevole di quanto appena successo e in cerca di una scossa che le avrebbe permesso di ricominciare.

Le opere di Brecht, senza mai citarlo direttamente, parlano del suo tempo, delle problematiche che tutti si trovano ad affrontare, della perversione dei regimi, degli errori e della bassezza degli uomini. L’immagine che si staglia da queste opere è tutt’altro che rassicurante, ma anche terribilmente autentica. Brecht riesce a tradurre la realtà in parole, a mostrare attraverso il filtro dell’opera scenica la quotidianità, le tragedie e le contraddizioni degli uomini.

Forse Brecht non parlava soltanto del suo tempo, forse stava descrivendo anche il nostro.

Forse – più in generale – Brecht stava descrivendo gli uomini nella loro totalità, senza calarli in un tempo specifico: il fatto che i tempi di Galileo, la guerra dei Trent’anni in cui ambienta le vicende di Madre Coraggio, o ancora la rivisitazione del classico greco Antigone siano così riconducibili agli anni ’50 del Novecento e – ora possiamo dirlo – al tempo presente fa pensare che forse nulla è mai cambiato, e che la storia non fa altro che ripetersi inesorabile.