Il marketing non dice a un artista come creare un’opera d’arte, piuttosto il suo ruolo consiste nel far incontrare le creazioni e le interpretazioni dell’artista con il pubblico adatto” (François Colbert, Marketing delle arti e della cultura)

 

A quanto pare dunque – da ciò che risulta leggendo le parole di alcuni grandi uomini di teatro – la convivenza tra teatro e mezzi di comunicazione di massa è quanto meno ostica.

Ma, come si sa, la verità non sta mai tutta da una parte, e soprattutto quando si parla di fenomeni artistici i confini sono spesso – per non dire sempre – labili e sfumati.

Quello che era vero nel pensiero di un nutrito numero di artisti tra la seconda metà del Novecento e oggi non deve per forza essere vero per gli operatori del settore.

Con il progredire delle tecnologie, con l’avvento e lo sviluppo di internet, poi ancora con la nascita dei social media si è venuto a creare tutto un filone che sembra finalmente far convergere le due nemesi. Questo nuovo campo – va detto – poco o nulla ha a che vedere con la parte considerata “artistica” del teatro.

Sto parlando del marketing culturale.

Quello che a primo impatto potrebbe sembrare un mero strumento economico, se applicato alle arti è in grado di risolvere non pochi problemi relativi alla vendita dei prodotti artistici – siano essi biglietti d’ingresso ai musei, concerti o spettacoli teatrali.

La caratteristica principale che distingue le imprese culturali – teatri compresi – da ogni altra impresa è il fatto di non avere un orientamento verso il mercato: mentre le imprese producono prodotti che sanno essere richiesti sul mercato, le imprese culturali producono prodotti senza andare incontro alle richieste del pubblico. La difficoltà diventa quindi vendere qualcosa che non è stato richiesto ma che incontrerà il favore di un certo numero di consumatori.

Il marketing culturale nasce e inizia a svilupparsi a cavallo degli anni ’70, quando Philip Kotler inizia a prosi il problema della sopravvivenza delle imprese culturali (François Colbert, Marketing delle arti e della cultura). Dopo di lui vari altri studiosi di economia iniziano a cercare di definire in maniera più precisa il problema.

Alcuni di questi, come ad esempio Diggles e Mokwa, sottolineano in particolare la dimensione artistica: secondo loro anche nelle operazioni di marketing l’artista deve essere post al centro e di conseguenza anche la stesa operazione di marketing è individuabile come un’azione culturale. (François Colbert, Marketing delle arti e della cultura)

L’azione di marketing che deve essere compiuta dalle imprese culturali risulta essere in un certo senso “inversa” rispetto a quelle delle imprese non culturali: il pubblico non è più il centro del processo. Tendenzialmente, gli artisti non producono un prodotto culturale al fine di raggiungere una specifica fetta di pubblico, ma creano un prodotto che – attraverso marketing e comunicazione – deve raggiungere il pubblico interessato a esso.

Non più il pubblico “mirato” delle imprese, ma piuttosto uno “sparare nella folla”, che cerca di colpire il maggior numero di persone possibile, in modo da alzare le probabilità di toccare qualcuno interessato dal prodotto culturale che si sta vendendo.

Un esempio che rappresenta questa difficoltà è appunto quello del teatro: nessun regista mette in scena uno spettacolo perché ha scoperto tramite un’indagine di mercato che il pubblico è interessato a vederlo. Ogni regista – o autore, o drammaturgo – lavora su un progetto perché spinto dalle sue proprie motivazioni artistiche e personali. Poi, una volta confezionato, lo spettacolo deve essere venduto, prima ai teatri che si rendono disponibili a ospitarlo, poi al pubblico degli spettatori. Allo stesso modo, nessuno spettacolo nasce sapendo a priori da quale pubblico verrà visto (fatta eccezione per il teatro per bambini e ragazzi, che rappresenta una categoria a parte e del tutto particolare). Sta quindi ai teatri trovare un pubblico, promuovere lo spettacolo fra gli spettatori abituali, cercando inoltre nei limiti del possibile di toccare un pubblico che esuli da quello degli affezionati, per aumentare le possibilità di individuare persone interessate a vedere quel determinato spettacolo che si sta vendendo.

Un ulteriore strumento – considerato parte integrante delle strategie di marketing –   fondamentale alle imprese culturali per la vendita dei prodotti è la promozione.

Questa ha la funzione di vero e proprio “ponte” tra le imprese e i consumatori. (François Colbert, Marketing delle arti e della cultura) Ed è proprio la promozione a chiamare ancora di più in causa il legame tra cultura e comunicazione.

Rimanendo in campo teatrale, per promuovere uno spettacolo si possono usare molti metodi diversi, sebbene i più sfruttati rimangano sempre pubblicità e relazioni pubbliche, con particolare attenzione per la comunicazione istituzionale (François Colbert, Marketing delle arti e della cultura)

È in questo processo che si può vedere il filo rosso che lega cultura e comunicazione di massa: una delle funzioni principali della promozione è trasmettere un messaggio, e per farlo utilizza uno dei più importanti modelli della comunicazione: il Modello di Schramm(François Colbert, Marketing delle arti e della cultura). Questo, in origine, è stato creato per studiare l’impatto delle comunicazioni di massa sulla società.

Il modello analizza il modo in cui i mezzi di comunicazione di massa funzionano, come inviano i messaggi e come ricevono feedback da parte dei riceventi.

Si può quindi dire che teatro (e in generale tutte le forme d’arte) e comunicazione di massa sono legati? Sì e no. Dipende dal punto di vista, e sono legittimi entrambi.

Ritengo che essere d’accordo con entrambi questi punti di vista non comporti una mancanza di coerenza. La differenza sta nel contesto cui si fa riferimento nel momento in cui si guarda alla questione. Posso essere d’accordo con gli artisti che affermano l’indipendenza del teatro rispetto i moderni mezzi di comunicazione, ma allo stesso tempo vedere l’utilità del guardare agli spettacoli di teatro come se fossero pellicole cinematografiche al fine di riuscire a venderli più agevolmente. In poche parole, ritengo che in questo particolare caso non si possa affermare che qualcuno ha ragione e qualcuno ha torto. Penso che la verità, ancora una volta, stia nel mezzo: il teatro può non uniformarsi ai suoi “concorrenti”, ma perché non sfruttare ciò che questi hanno di utile pur continuando sulla sua strada?

Ricercate sempre la verità vera e non la concezione popolare della verità. Servitevi delle vostre reali, specifiche ed intime esperienze. Questo equivarrà spesso a dover dare l’impressione di una mancanza di tatto. Mirate sempre all’autenticità” (Per un teatro povero, J.G.)

Uno degli uomini di teatro più influenti del XX secolo è stato senza dubbio Jerzy Grotowski.

Nato nel 1933 in una piccola cittadina polacca, nel 1955 egli si laurea alla Scuola Superiore d’Arte Teatrale di Cracovia. Dopo un viaggio in Russia che gli farà conoscere i grandi maestri del teatro Ottocentesco Grotowski torna in Polonia e inizia la sua carriera di regista.

Nel 1959 si trasferisce nella cittadina di Opole dove inizia a lavorare nel teatro locale, il “Teatro delle tredici file”, poi rinominato Teatr Laboratorium nel 1962.

Nel 1965 egli decide di trasferire il suo Teatr Laboratorium a Wroclaw. A questo punto la grande carriera di Grotowski può dirsi iniziata.

La sua importanza in campo teatrale deriva soprattutto dalle sue pratiche relative al training dell’attore, dalle sue idee che vedono l’attore come il punto focale dell’esercizio teatrale. Un esercizio che deve tendere al miglioramento della persona – attore o spettatore – attraverso l’allenamento o attraverso l’esperienza diretta di quell’allenamento. Ma la novità di Grotowski deriva anche dal suo particolare modo di guardare al teatro come istituzione, e in particolare l’analisi che egli fa del teatro del suo tempo. Egli analizza la posizione del teatro rispetto ai nuovi mezzi di comunicazione, in particolare cinema e televisione, e il loro impatto sulle abitudini delle persone. Grotowski si pone in aperto contrasto nei confronti di quei registi e studiosi che volevano che il teatro si modificasse e modificasse i suoi mezzi per competere con le neonate tecnologie.

Eliminando gradualmente tutto ciò che si dimostrava superfluo, scoprimmo che il teatro può esistere senza cerone, senza costumi e scenografie decorative, senza una zona separata di rappresentazione (il palcoscenico), senza effetti sonori e di luci, ecc. non può invece esistere senza un rapporto diretto e palpabile, una comunione di vita fra l’attore e lo spettatore” (Per un teatro povero, J.G.)

Quello che Grotowski affermava era invece la necessità di un ritorno alle origini: il teatro non potrà mai combattere con il cinema e la televisione usando i suoi mezzi. Per vincere – o almeno continuare a combattere – questa battaglia il teatro deve puntare non sull’uniformazione, ma sull’esaltazione di quegli aspetti che lo rendono diverso e in un certo senso più ricco rispetto ai nuovi mezzi: il contatto con gli attori, uno scambio continuo tra chi recita e chi assiste, una compresenza di persone disposte a mettersi a nudo e a lasciarsi “colpire” dallo spettacolo a cui stanno assistendo.

Per quanto il teatro possa estendere e sfruttare le proprie risorse meccaniche esso rimarrà pur sempre inferiore sul piano tecnologico al cinema e alla televisione” (Per un teatro povero, J.G.), così afferma Jerzy Grotowski in un articolo pubblicato nel 1965.

E come dargli torto? Le possibilità tecnologiche dei nuovi mezzi di spettacolo sono infinitamente superiori rispetto a quelle proprie dello spettacolo dal vivo. Le tecniche applicabili al materiale registrato infinitamente più numerose rispetto a quelle utilizzabili in un contesto di pura presenza.

Ritengo che le soluzione proposta da Grotowski sia stata incredibilmente innovativa, soprattutto considerando il periodo in cui è stata formulata. L’idea di un ritorno alle origini – già formulata da altri prima di lui – arriva con il maestro polacco ad un punto che prima non era stato mai raggiunto: viene messa in pratica. Non solo, oltre a essere messa in pratica diventa la cifra stilistica di una carriera.

Dopo il 1970, anno in cui smette di fare spettacoli, Grotowski consacra la sua intera carriera all’indagine sull’attore e su nuove forme di teatralità che si basino esclusivamente sul rapporto di scambio che avviene nel contesto della messa in scena. Questa ricerca porta Grotowski all’elaborazioni di vari metodi che, se seguiti alla stregua di fasi successive, culminano con la fondazione del Workcenter di Pontedera, in Toscana. Qui Grotowski lavora per tredici anni, dal 1986 al 1999, anno della sua scomparsa. Ed è in questo luogo che si può vedere l’ultima eredità di Grotowski: il gruppo, sebbene si sia diviso in due correnti diverse, continua a portare avanti il lavoro e le idee del maestro che li ha ispirati.

Il lavoro costante, la dedizione portano Grotowski a essere considerato uno dei più influenti uomini di teatro nel Novecento. Il suo peculiare stile d’indagine – che consisteva nel partire dalla pratica per poi arrivare all’elaborazione teorica – ha dato frutti importanti, come dimostra il fatto che ancora oggi le sue tecniche vengono studiate e utilizzate.

Ma quello che a mio parere è più degno di nota quando si parla di Jerzy Grotowski non sono tanto le tecniche – sebbene importantissime – ma l’idea di fondo che egli si è sempre portata appresso durante tutto il corso della sua carriera. Ed è l’idea di un teatro utile, importante, che sia in grado – attraverso sacrifici e difficoltà – di portare a un miglioramento della società intera.

Leggendo i testi e le interviste di Grotowski l’idea forte che mi colpisce è la profonda speranza che egli riponeva nel mezzo teatrale: nonostante tutte le difficoltà egli non ha mai perso la speranza di vedere il teatro diventare la più alta forma d’arte. Un teatro che sia primariamente lavoro su di sé, un’esperienza cercata da coloro che vogliono mettersi a nudo, che vogliono capire e migliorare sé stessi. Un teatro che sia incontro: incontro tra persone, tra corpi ma soprattutto tra spiriti inquieti in cerca della loro verità e che nel teatro vedono la possibilità di ritrovarsi.

L’idea infine che il teatro possa essere lo specchio attraverso cui si guarda alla realtà, il luogo in cui ci si può liberare dalle maschere e vedere finalmente la verità che nascondiamo a noi stessi.

Nella lotta con la nostra personale verità, nello sforzo per liberarci della maschera che ci è imposta dalla vita, il teatro con la sua corporea percettività, mi è sempre parso un luogo di provocazione, capace di sfidare sé stesso ed il pubblico violando le immagini, i sentimenti e i giudizi stereotipati e comunemente accettati […]” (Per un teatro povero, J.G.)

 

Un teatro non può giustificare la sua esistenza se non è cosciente della sua missione sociale” (Eugenio Barba)

Troppo spesso si tende a considerare il teatro come una forma immutabile e immutata, un’arte che si sviluppa nella fissità del suo modello, e che raramente si trova a interagire con i cambiamenti del mondo circostante. Niente di più falso. Il teatro è sempre stato influenzato – e ha contribuito a influenzare – il mondo “esterno”, adeguando i suoi mezzi e diffondendo le sue idee.

In particolare, un impatto molto forte è stato quello tra il teatro e i mezzi di comunicazione di massa: il teatro si è infatti visto pian piano portare via il ruolo di predominanza in ambito artistico che da sempre gli apparteneva. Prima il cinema, poi ancora di più l’avvento della televisione e nell’ultimo periodo internet e i suoi derivati hanno portato le persone a preferire il confort di uno schermo dentro casa rispetto all’impatto di un’interazione con altri esseri in carne e ossa tra le mura di un teatro.

Uno dei primi istinti che ha avuto il teatro quando si è trovato a dover interagire con i mezzi di comunicazione è stato di rifiuto, almeno dal punto di vista ideologico.

Se da un lato stiamo assistendo a un inesorabile avanzamento nelle tecnologie legate alla comunicazione, dall’altro si assiste a un sempre più marcato desiderio di “ritorno alle origini” del teatro: si cerca di riportare il teatro alla sua dimensione più prettamente rituale, si cerca un teatro che non si adegui ai nuovi schemi, ma che anzi li neghi e se ne allontani, che infine cerchi i suoi propri mezzi espressivi.

Nonostante questo, teatro e comunicazione sono sempre stati legati, e il loro legame del tutto particolare ha portato a non poche innovazioni nell’uno e nell’altro campo.

Ritengo che uno dei primi personaggi che sia riuscito a esplicitare questo legame tra le due discipline sia stato un attore e regista statunitense: Orson Welles. Eclettico personaggio nato nel 1915 in una cittadina del Wisconsin, dopo una vita divisa tra USA ed Europa, tra teatro, cinema e radio, Orson Welles viene ricordato come uno dei più grandi registi del Novecento. E questo anche grazie alle sue idee fuori dagli schemi.

Era il 30 ottobre 1938 quando sulle frequenze radio della CBS andava in onda un programma recitato – quasi fosse la lettura di uno spettacolo teatrale – dal titolo “La guerra dei mondi”. La storia raccontata è quella di un fantomatico attacco alieno che avrebbe avuto luogo a Grover’s Mill, in New Jersey. Il format utilizzato da Welles e colleghi era quello di un normale radiogiornale dell’epoca. Il risultato? Diverse agenzie stampa nei giorni successivi hanno parlato di reazioni di vero panico tra i cittadini.

Le persone, abituate a sentire notizie considerate vere alla radio, non capirono che si trattava di finzione – sebbene la natura di finzione della lettura fosse stata annunciata prima dell’inizio della trasmissione – e credettero davvero a un’invasione aliena.

Quella che a noi contemporanei sembra un’idea geniale e molto ben realizzata – e che ha contribuito a mettere Orson Welles nell’Olimpo dei geni novecenteschi – all’epoca creò molto più scalpore del previsto: i mezzi di comunicazione di massa erano ancora a uno stadio poco sviluppato, e nessuno prima di Welles aveva mai pensato di farne un uso di questo tipo.

A mio parere la genialità – e anche l’utilità – di questo show è stata quella di mostrare praticamente un primo ma forte trait d’union tra teatro e comunicazioni di massa, dimostrando quanto questi due elementi possano fondersi, anche se a un prezzo molto elevato.

Non sarà sembrato che dicessi che il teatro è finito, vero? Ci sono dei grandi artisti che continuano a lavorarci, ma non è più collegato alla centrale elettrica principale. Il teatro resiste come un divino anacronismo: come l’opera lirica e il balletto classico. Un’arte che è rappresentazione più che creazione, una fonte di gioia e meraviglia, ma non una cosa del presente” (Orson Welles)

Erano quelli gli anni delle nuove forme di comunicazione, il mondo stava cambiando, stava prendendo una nuova direzione, anche se nessuno poteva ancora immaginare quale.

Trovo interessante il fatto che a cavalcare quei tempi sia stato un uomo nato da e nel teatro, sebbene molto critico nei confronti di questa forma d’arte.

L’analisi sui nuovi mezzi di comunicazione porta Welles ancora più lontano, fino ad arrivare a quello che viene considerato il suo capolavoro assoluto, Citizen Kane, non a caso tradotto in italiano “Quarto potere”. L’analisi della nuova comunicazione arriva con questo film a livelli mai raggiunti prima dal regista americano. Ancora una volta l’arte – anche se in questo caso si tratta di cinema anziché di teatro – è lo specchio attraverso il quale si guarda e si critica la società, che si stava riscoprendo all’epoca sempre più plasmata e plasmabile dai mezzi di comunicazione di massa.

Un’analisi degna di nota quella portata avanti da Welles, che è stato in grado, attraverso i suoi lavori, di portare alla luce un legame che sarebbe diventato fondamentale negli anni a venire.

Dall’altra parte dell’Oceano Atlantico le menti di critici e studiosi non erano da meno: erano gli anni della riscoperta tardiva del pensiero di Artaud, gli anni in cui firmava i suoi primi lavori un bizzarro regista polacco che avrebbe rivoluzionato la concezione di teatro e il modo di farlo con i suoi lavori, le sue teorie e i suoi scritti.

Ed è proprio da Jerzy Grotowski che bisogna partire per capire da dove e come è nato il Terzo Teatro.

Grotowski si pone all’interno di una neonata tradizione che cerca di giungere a un rinnovamento del teatro che guarda indietro anziché guardare in avanti. Attraverso i suoi insegnamenti, attraverso i suoi spettacoli, Grotowski manda un messaggio di rinnovamento e di cambiamento rispetto al passato.

Poi Grotowski smette di fare spettacoli. E la cesura si fa sentire in tutto il mondo del teatro. E provoca un’onda d’urto che colpisce tutti coloro che all’epoca di teatro si stavano occupando.

Nella seconda fase del suo lavoro come regista, quella in cui dà alla luce i suoi spettacoli più famosi, da Akropolis a Il principe costante, Grotowski si basa su una concezione di teatro “povero”, intendendo con questo un teatro che non deve competere con i nuovi mezzi di comunicazione, primo fra tutti il cinema, in quanto una competizione “ad armi pari” avrebbe portato alla sconfitta del teatro. Bisognava quindi creare un teatro che non guardasse più al futuro, semmai al passato. (Per un teatro povero, J. Grotowski)

E fu proprio uno degli allievi di Grotowski a portare a degno compimento gli insegnamenti del maestro: la nozione di Terzo Teatro la si deve a Eugenio Barba, ex allievo del maestro polacco e fondatore dell’Odin Teatret e dell’antropologia teatrale.

La definizione di Terzo Teatro ha lo scopo principale di differenziare questa nuova pratica teatrale sia da quello che viene considerato il “primo teatro”, quello ufficiale, sia dal “secondo teatro”, l’avanguardia.

L’idea di Terzo teatro nasce dalla convinzione che il teatro per esistere abbia bisogno di persone, di un lavoro incentrato sull’attore. E qui, nelle tecniche di lavoro degli attori, nel training, si sente l’influenza di Grotowski.

Il manifesto del Terzo Teatro viene pubblicato nel 1976, con la firma di Eugenio Barba.

Quello di cui parla Barba è un teatro che non rientra più all’interno della vecchia dialettica tradizione – avanguardia, ma un teatro che guarda altrove.

Un teatro che guarda con particolare attenzione a Oriente, a quelle tradizioni teatrali che non soffrono – o almeno soffrono poco – dell’invadenza dei nuovi mezzi espressivi.

Teatri tradizionali, che mantengono viva la loro dimensione rituale.

Nel 1979, con la fondazione dell’ISTA (International School of Theatre Anthropology), il lavoro di Barba si orienta ulteriormente in questa direzione.

Quello che si cerca è un teatro che sia lavoro per l’attore, che sia nuovo e che si basi sulla tradizione. In tutti i suoi anni di lavoro, l’ISTA ha contribuito a creare e diffondere una teatralità nuova e allo stesso tempo importante, un filone pratico e teorico che continua ad arricchirsi.

A prima vista questi due mondi – teatro e comunicazioni di massa – sembrano inconciliabili.

Non solo, si potrebbe quasi considerarli uno la nemesi dell’altro. Due mondi diversi e divisi, a volte in guerra, ma che combattono con armi diverse le loro battaglie, ognuno deciso a trovare la sua propria strada indipendentemente dall’altro.

Nonostante l’esperienza radiofonica di Welles, che sembrava aver creato una breccia attraverso cui questi due mondi potessero comunicare, la convivenza sembra difficile e piena di ostacoli.

Quarto potere e Terzo Teatro possono quindi comunicare tra loro ponendosi su un piano comune? Per ora la risposta sembra essere negativa, ma chissà che non arrivi un altro Orson Welles a farci cambiare idea.