Per concludere la rassegna sui festival – per lo più estivi – di teatro parlerò di un festival che si svolge nella nostra regione, e in prevalenza a Modena: il Vie festival, che giungerà quest’anno alla sua 14° edizione.

Il Vie festival nasce nel 2005 come evoluzione di un precedente progetto, “Le vie del festival”, a sua volta nato nel 1994, che si teneva ogni anno da ottobre a dicembre.

Entrambi i progetti nascono e vengono portati avanti da ERT, Teatro Nazionale dal 2015, che fin dalla sua fondazione ha da sempre manifestato grande interesse per la scena del teatro contemporaneo e internazionale. Solitamente programmato negli ultimi weekend di ottobre, quest’anno gli organizzatori del Vie ci faranno attendere un po’ più del solito: il festival è infatti programmato per marzo 2019. Considerando le ultime edizioni del festival però, è pressoché sicuro che l’attesa si rivelerà proficua.

 “L’idea di contemporaneità si coniuga immediatamente con quella di complessità, qualcosa che è in continuo movimento e veloce nella sua indeterminatezza” (dal Progetto del festival)

Il festival nasce per rispondere all’interesse dei suoi organizzatori verso tutto ciò che è contemporaneo, internazionale e, ovviamente, teatrale. La tendenza e l’interesse verso l’internazionalità, già presente e ben visibile in tutte le stagioni di ERT, diventa ancora più tangibile all’interno della programmazione di questo festival ormai ventennale. Fin dalla fondazione ERT si presenta come un nucleo attento sia – e principalmente – al teatro, sia al suo pubblico, sia infine al panorama internazionale, specialmente europeo: grande importanza viene infatti data a gruppi e compagnie provenienti dall’estero, alle loro idee e ai loro progetti. E questo non solo per quanto riguarda gli spettacoli: sono vari i progetti a cui il gruppo modenese aderisce che puntano ad accrescere il peso internazionale di ERT. Non ultimo, il progetto iniziato nel 2017, Atlas of transitions, che porterà ERT a essere protagonista di un vasto progetto di scambio con le realtà di vari altri stati.

Per quanto poi riguarda il Vie, negli anni si possono citare parecchi esempi di spettacoli che hanno portato compagnie estere a Modena e Bologna.

Guardando solo all’ultimo anno, risale all’edizione 2017 la messa in scena dello spettacolo “Chekhov’s first play”, del gruppo dublinese Dead Centre, per la prima volta in Italia, e di “Kamyon”, di Michael De Cock, regista e direttore artistico del KVS di Bruxelles.

Ma il Vie non si concentra soltanto su spettacoli internazionali: il festival è al contempo molto attento anche sul piano del legame con il territorio. Questo legame tra l’organizzazione del festival e le città in cui si svolge è molto forte, in primis per quanto riguarda gli spazi interessati dal festival: non solo vengono sfruttate le sale di ERT, ma molti altri spazi pubblici quali chiese, piazze, strade delle quattro città che vengono toccate dalla programmazione possono diventare luoghi legati al Vie. Queste quattro città sono Modena, Bologna, Vignola e Castelfranco Emilia, ognuna delle quali ospita una o più sedi di teatri ERT.

Il legame con il territorio però non viene costruito solo attraverso la presenza fisica del festival e delle rappresentazioni ad esso legate: questo legame viene coltivato anche e soprattutto con le persone, con gli abitanti delle città, che vengono chiamati in modo più o meno diretto a partecipare agli eventi promossi dall’organizzazione del Vie. Una politica culturale a mio parere molto interessante quella portata avanti dal Vie, che può così mescolare territorio e internazionalizzazione, identità e apertura. Oltre all’importante peso culturale di questo festival, che riesce a portare nello stesso luogo alcuni dei personaggi più affermati in ambito teatrale, ritengo che l’importanza del Vie derivi proprio dal fatto di riuscire a creare una comunità che si riunisce intorno al festival stesso. Una comunità unita e un sodalizio con le città che si riesce a rinnovare ogni anno.

Un modo in più, usato da ERT per affermare il suo peso culturale, ormai sempre più importante. Un modo per portare avanti l’idea del “teatro come valore”, un teatro contemporaneo, in grado di unire professionisti e pubblico provenienti da quasi tutta Europa e non solo. Un teatro “senza mura”, in grado di unire tutti coloro che vi partecipano.

Si è svolta durante il mese di luglio l’edizione 2018 del Napoli Teatro Festival.

Arrivato quest’anno alla sua undicesima edizione, il festival partenopeo ha portato nel capoluogo campano diversi importanti spettacoli, nazionali e non.
Un programma ricco che si è articolato tra italiani e internazionali, musica, danza e cinema, progetti speciali, laboratori, mostre e altro ancora.

In particolare, si sono poi svolti alcuni laboratori a mio parere degni di nota, tra cui il Laboratorio sull’attore tenuto da Punta Corsara – compagnia nata come progetto d’impresa culturale della stessa Fondazione Campania dei Festival; un laboratorio intitolato Le corps sauvageIl corpo selvaggio – a cura di Gilles Coullet; il laboratorio Mente Collettiva tenuto fra gli altri da Eugenio Barba.

Ritengo poi che alcuni degli spettacoli proposti assumano particolare rilievo.

Nella sezione Internazionali era presente il nuovo spettacolo di Thierry Collet, Dans la peau d’un magicien.

Il mago francese decide, questa volta, di mescolare ai numeri magici una storia da raccontare, la sua. Dalla scoperta della magia, ai primi esperimenti, fino al presente, quello che ci presenta Collet è un viaggio interiore che, attraverso la magia, ci permette d’indagare l’interiorità di un prestigiatore di professione. Un’idea a mio parere azzeccata, che permette di mettere in scena non il solito spettacolo di magia, ma di vedere la magia nella sua accezione più quotidiana e di indagare e magari capire il legame che intreccia con la vita quotidiana di coloro che la praticano, fino ad entrare a pieno diritto “nei panni di un mago”.

Anche un secondo spettacolo della sezione Internazionali si pone l’obiettivo di farci guardare a questioni che consideriamo “quotidiane” con occhio diverso. Lo spettacolo è Clown 2 ½, con la regia di Roberto Ciulli e prodotto da Theater an der Ruhr. Questo lavoro vuole far riflettere lo spettatore sulla vecchiaia.
Declassata da età della saggezza a età della debolezza, spesso la vecchiaia viene vista e vissuta come una serie di giornate sempre uguali, scandite da regole ferree e non modificabili.
Il cambio di punto di vista avviene qui grazie a un gruppo di clown: questi sono in grado di portare brio anche nel mondo della vecchiaia, così come hanno fatto durante tutto il corso della loro vita. Un modo innovativo per riflettere su una questione considerata poco importante, e per mostrare come tutto possa cambiare, se lo si vuole davvero.

Nella sezione riservata agli spettacoli a firma italiana del festival sono poi presenti 2 spettacoli che cercano di rileggere Shakespeare sotto la lente della contemporaneità.

Il primo spettacolo è Abitare la battaglia (Conseguenze del Macbeth).

 “[…] e se la liberazione non esistesse realmente? Se la liberazione fosse abbracciare la corruzione della mente e dell’animo, anziché allontanarsene, in uno slancio vitale che travolge tutto?” (dalla sinossi dello spettacolo)

Attraverso l’analisi della tragedia scozzese, quello che la drammaturga Elettra Capuano si propone di portare a termine è un’analisi del male e del modo di vederlo e di sentirlo in rapporto alla vita degli uomini. Un male che non viene purificato da nulla, che non ha speranza di giungere alla catarsi. Come a volerci dire che gli uomini compiono il male con il solo scopo di imprimere a fuoco la loro impronta sulla terra, prima di doverla lasciare senza aver realmente concluso nulla.

Il secondo spettacolo è Who is the king. In questo caso la rivisitazione è più massiccia, quanto meno a livello di struttura: il progetto di Lino Musella, Andrea Baracco e Paolo Mazzarelli mira a interpretare i drammi storici di Shakespeare all’ombra delle moderne serie televisive.
Un’idea che può sembrare bizzarra a primo impatto, ma che tuttavia ha il pregio di dare continuità alla storia dei re narrati da Shakespeare. Una storia che non parla di redenzione, semmai di dannazione: partendo dal mite Ricardo II, attraverso le vicende di Enrico IV, Enrico V ed Enrico VI si giunge alla vicenda sanguinario re Riccardo III.
Una storia divisa in quattro “episodi”, che segue appunto lo schema delle moderne serie, che è in grado di raccontare, attraverso le parole del Bardo, la controversa storia del popolo inglese.

Ritengo che in questa edizione da poco conclusa il festival di Napoli sia stato in grado di mostrare e farsi portatore di idee e realtà diverse, di dimostrare che non esiste un solo punto di vista e che la contemporaneità può essere molto più complessa di quello che si pensa.

Il nuovo mondo si presenta a noi tra la globalizzazione – con la sua utopia di una comunità umana pensata soprattutto sugli scambi – e il suo opposto […]” (Monique Veaute, Presidente Fondazione Romaeuropa)

Ormai arrivato alla sua 33° edizione, il Romaeuropa Festival avrà luogo quest’anno tra il 19 settembre e il 25 novembre in vari teatri e luoghi all’aperto della capitale. In linea con la tendenza dei festival di questo 2018 anche il festival romano avrà come tema – e missione – l’incontro tra mondi diversi, apparentemente incapaci di comunicare, ma che possono essere uniti dalla cultura. E in particolare dallo spettacolo dal vivo.

Un obiettivo importante e gravoso quello che si prefigge il festival, un’operazione non scontata che cerca di dimostrare come il mondo stia tornando indietro invece di andare avanti. E questo processo viene raccontato partendo dai muri: così come la caduta del muro di Berlino aveva dato speranza – come afferma Monique Veaute, Presidente Fondazione Romaeuropa – così i nuovi muri che vengono costruiti ci fanno ricadere nell’ombra delle divisioni e dell’assenza di un progetto comune.

La difficoltà del progetto non sta fermando gli autori, e il festival di quest’anno si preannuncia di alto livello: compagnie e artisti provenienti da tutti i continenti e un programma pieno di novità per mostrare al pubblico che si recherà nella Città Eterna che la diversità c’è, esiste e va preservata, non temuta.

La strada che imboccherà il festival è in realtà già stata percorsa: la programmazione 2018 seguirà infatti le orme di uno dei più importanti e influenti uomini di teatro europei del secondo Novecento, Peter Brook.

 Enfant prodige nella Londra di metà secolo, Peter Brook è riuscito a collaborare con i più grandi maestri dell’epoca, a mettere in scena spettacoli di ogni genere, e tutto in giovane età. La sua attività di riformatore inizia più tardi, con il trasferimento a Parigi e la riscoperta della sua “africanità”. In seguito a un viaggio in Africa compiuto tra il 1972 e il 1973 insieme agli attori della Royal Shakespeare Company (nata su influenza dello stesso Brook) egli è riuscito a sdoganare i pregiudizi teatrali che colpivano il continente africano, e a dimostrare che a differenza delle apparenza l’Africa è un luogo ricco di teatro, sebbene con modalità estranee al mondo occidentale. Con questo viaggio egli è riuscito a dimostrare che il luogo comune di un’Africa senza teatro era non solo falso, ma si basava sul pregiudizio culturale che riconosce come teatro solo quello che viene fatto in Europa. Brook non solo ha scoperto le forme della teatralità africana, ma le ha fatte sue e le ha riportate a casa con sé. Tornato a Parigi egli ha dedicato la sua vita artistica alla creazione di spettacoli intrisi della poetica teatrale africana, e ha fatto quindi dell’abbattimento delle barriere artistico-culturali il punto di partenza della sua arte.

Il Maestro – ormai più che novantenne – torna al REF e porta il suo ultimo spettacolo. The prisoner, con la regia di Brook e Marie-Hèlène Estienne, si presenta come uno spettacolo semplice, che racconta una storia apparentemente telegrafica ma che al contempo lascia spazio a importanti sviluppi. È la storia di una prigione in una regione desertica, e di un uomo che, dall’esterno, la osserva. Una storia che lascia aperti molti punti interrogativi, sulle identità e le storie dell’uomo e dei detenuti, che solo la visione dello spettacolo potrà sciogliere.

È anche uno spettacolo perfettamente in linea con la programmazione del REF, uno spettacolo che parla di muri apparentemente impossibili da attraversare, ma che forse le storie degli uomini sapranno scavalcare.

Il Romaeuropa è un festival che, anche per via della lunghezza della programmazione, ha la possibilità di metter in scena spettacoli diversi, per genere e forma, ma che siano in grado di avere un impatto. Guardando gli spettacoli in programmazione in questa edizione penso che l’impatto sarà forte. E non solo per la qualità degli spettacoli, ma per la storia che raccontano, per l’idea che sta alla base della scelta di questi spettacoli.

Parlare di muri oggi è a prima vista scontato, lo si fa quotidianamente sulle prime pagine dei giornali e in quasi tutti i programmi di attualità. Ma trasformare questa riflessione sui muri in un progetto culturale è qualcosa che non viene fatto spesso. E credo sia proprio questo il punto forte del REF: non solo trattare un tema, ma farlo diventare un atto di cultura, farlo diventare una riflessione che coinvolge l’arte e le arti, farlo diventare il motore di quasi due mesi di programmazione.

Nelle parole di Fabrizio Grifasi, Direttore Generale e Artistico della Fondazione Romaeuropa:

Perché è sull’esasperazione delle differenze rappresentate in questo momento come insormontabili e quindi da rifiutare che si articola la visione apocalittica di un ritorno a una purezza immaginaria e perduta, eppure in aperta contraddizione con la frenesia degli iperscambi e dell’overload comunicativo, a cui opponiamo un percorso ragionato e sensibile, dove le contraddizioni sono una sfida, senza nascondersi le paure, i fallimenti e le fragilità che agitano il presente che viviamo, offrendo il nostro festival come ambito di ritrovo per chi rivendica leggerezza e pensiero nella sobrietà dei colori dell’autunno

Defying the norm since 1947” (Slogan EdFringe)

Dal 3 al 27 agosto si svolgerà quello che è forse il più grande festival teatrale al mondo. Nato nel 1947 per rispondere all’esigenza di rinnovamento in ambito culturale all’indomani della Seconda guerra mondiale, il fringe di Edimburgo dimostra fin da subito il suo potenziale, diventando in poco tempo il principale portavoce di quel cambiamento che aveva portato alla sua nascita.

Tutto è cominciato con 8 compagnie che – spontaneamente e senza nessun tipo di accordo – si sono incontrate a Edimburgo per fare arte. Il fringe è poi cresciuto tanto da diventare la più grande piattaforma di scambio artistico attualmente esistente. Il festival continua a essere organizzato ogni anno durante il mese di agosto. Tre settimane durante le quali ogni angolo della città diventa un possibile palcoscenico “per chiunque abbia qualcosa da dire”. Artisti provenienti da tutto il mondo si trovano nella città scozzese per dare vita a uno dei più grandiosi eventi a cielo aperto delle estati europee.

Spettacoli di strada, musica, giocoleria, performance e teatro (al chiuso) si incontrano e imparano a conoscersi sotto gli occhi del pubblico internazionale del festival.

Ma quello di Edimburgo non è un festival come gli altri. La denominazione fringe porta con sé un significato molto importante: una particolare categoria di festival teatrale che, come gli altri, non contempla solo spettacoli, ma teatro di strada, giocoleria, musica, tutto in un regime di libertà assoluta che crea un’atmosfera di inclusione a tutto tondo.
La differenza – che è anche la caratteristica più importante dei fringe – è quella di dare visibilità a chiunque: non ci sono barriere, gli artisti accolti possono essere professionisti affermati così come giovani alle prime armi. L’obiettivo di questo tipo di festival metropolitano è di permettere a chiunque voglia fare uno spettacolo di poterlo fare in un regime pienamente democratico. Durante un fringe non esistono diversi livelli di importanza: tutti gli artisti sono considerati uguali, e a tutti vengono date le stesse opportunità, a livello di spazi e di pubblico.

Il titolo dell’edizione di quest’anno, “Into the unknown”, lascia già intuire quale sarà lo stile di questo fringe. L’edizione 2018 del festival si presenta come un viaggio verso ciò che non conosciamo. Grazie a migliaia di spettacoli di ogni tipo, dal teatro parlato al musical, dalle performance di strada alla commedia, il fringe accompagnerà i suoi spettatori in un viaggio verso e attraverso lo sconosciuto, verso tutto ciò che non ci si aspetta. Gli organizzatori del festival ci invitano a “fare un salto nello sconosciuto”, a farci avvolgere da questa atmosfera di suspense e meraviglia.

Il salto “into the unknown” che promuove il festival non è solo a livello personale, ma anche a livello artistico: l’immensa varietà di spettacoli proposta dal festival e le politiche di accesso che danno la possibilità a tutti di fruire gli spettacoli in cartellone permettono agli spettatori di vedere spettacoli che forse non appartengono al loro orizzonte culturale. Magari si troveranno a contatto con forme artistiche che non avevano mai nemmeno immaginato, ma che qui potranno vedere semplicemente passeggiando lungo il Royal Mile.

Penso che questo aspetto sia uno dei più importanti del fringe di Edimburgo: mettere l’arte a portata di tutti è un’operazione importante, e purtroppo non scontata. In un momento in cui l’arte sta soffrendo per carenza di fondi e di pubblico, dare la possibilità a un pubblico incredibilmente ampio di partecipare a spettacoli così diversi è quasi un atto rivoluzionario.
La libertà del fringe, inoltre, è totale anche per gli artisti: non esiste nessun comitato che decide chi può e chi non può partecipare. Tutti coloro che hanno un progetto e un luogo disposto ad ospitarli, hanno anche la possibilità di mettersi in scena, siano essi professionisti affermati o giovani che stanno cercando la loro strada.

Il salto che gli organizzatori del festival ci chiedono di fare è forse quello che tutti noi dovremmo fare nella quotidianità: un salto che forse porta a situazioni che non conosciamo e che non ci appartengono, ma dalle quali è sempre possibile imparare qualcosa. Fare questo salto significa – da un punto di vista artistico e non – aprire la propria mente a tutto quello che ci sta intorno, che sia vecchio o nuovo, di nostro gusto o no, conosciuto o sconosciuto. E promuovere questa apertura mentale attraverso l’arte, in particolare il teatro è ancora più importante: in questo modo si può dimostrare che attraverso l’arte si può arrivare da qualche parte, si può ancora costruire qualcosa. Far riemergere il lato più democratico dell’arte, quello che mette tutti gli artisti sullo stesso piano – il piano di chi vuole esprimere sé stesso in qualsiasi forma immaginabile – è un modo per affermare in linea più generale l’importanza dell’arte, uno dei pochi mezzi ormai in grado di creare un’unione fra i gruppi più diversi.

We believe that everyone, irrespective of their background, should have the opportunity to experience and express themselves through creativity” (Dal programma 2018 del Fringe)

[“Crediamo che chiunque, a prescindere dal suo background, dovrebbe avere l’opportunità di mettersi alla prova ed esprimere sé stesso attraverso la creatività”]