La realtà amatoriale in Italia

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“Intanto, la miglior cosa da fare, è forse di rinunciare al salvataggio del Teatro italiano così com’è. L’antichissimo edificio, dopo millenni di gloria, è divenuta una crollante baracca: ha esaurito il suo compito. Lasciamo che si sfasci. Noi non possiamo non aver fede nelle energie della razza: mille segni sporadici ma vivi ci han detto che le sue virtù non sono spente. Per questo crediamo, sappiamo, che domani qualcuno ricostruirà; ma sulle rovine.” (Silvio D’Amico)

Volendo iniziare la redazione di questo contributo, per sfizio personale, ho deciso di cercare su Google le parole “situazione del teatro amatoriale in Italia”. I primi risultati apparsi avevano tutti una medesima tematica: la crisi del teatro.

Che sia forse un caso? Io credo (e temo) di no.

Che il settore teatrale in Italia stia vivendo un periodo di crisi è ormai cosa risaputa da ben più di dieci anni a questa parte. Con la crisi iniziata nel 2008, poi, la situazione non è andata migliorando. La stretta economica ha portato a un calo di pubblico e al calo del potere d’acquisto di quel pubblico. Le ultime stime, inoltre, affermano che solo 1 italiano su 5 va a teatro.

Ma come si inserisce il teatro amatoriale in questo orizzonte?

Innanzitutto, una premessa è necessaria. Per comprendere bene la nascita e lo sviluppo del modello amatoriale in Italia è necessario fare un passo indietro, tra gli ultimi decenni dell‘800 e i primi del ‘900: è lì che si è venuto a stabilizzare il modello che poi avrebbe contraddistinto l’organizzazione teatrale italiana professionistica (e anche amatoriale).
Il teatro italiano è un teatro di compagnie di giro. Il capocomicato è rimasto fino al 1947 la principale forma del teatro italiano, prima di essere soppiantato dal sistema degli stabili.
Ed è proprio sotto forma di compagnia che si presentano principalmente i gruppi teatrali amatoriali.

Le compagnie amatoriali hanno ormai assunto alcune delle caratteristiche tipiche proprie anche dalle compagnie professionistiche del post crisi economica. Tra le similitudini principali, si può notare che entrambe si basano sulla compresenza di attori e spettatori, si concentrano maggiormente su piccole platee, propongono spettacoli che puntano sull’intensità emotiva e comunicativa, valorizzano il lavoro sul territorio e le compagnie sono generalmente composte da ristretti gruppi di persone.

Ovviamente ci sono anche molte differenze.

Come si può leggere nell’analisi curata da F. Mussi nel suo saggio “Le politiche culturali in Italia: il teatro amatoriale” (in “La produzione artistica e culturale e i suoi attori. L’intervento pubblico al tempo della democrazia e dello Stato sociale” a cura di Andrea Villani), le differenze esistenti tra teatro amatoriale e teatro professionistico sono di natura strutturale e sono fondamentali per la comprensione della diversità di approccio di questi due settori.
In primo luogo, il teatro amatoriale non è la principale fonte di sostentamento di coloro che lo praticano: esso è un impiego di tempo libero, e per questo spesso ha a disposizione meno fondi e una visibilità notevolmente inferiore rispetto al teatro professionistico. Questo deriva anche dal fatto che il teatro amatoriale non gode della rappresentanza delle istituzioni pubbliche.
Nel parlare comune italiano, poi, la dicitura “teatro amatoriale” è connotata da un senso negativo che indica scarsa qualità, scarsa autorevolezza e irrilevanza a livello culturale.

È come se si venisse a creare una contrapposizione aperta tra teatro primario (professionale) e teatro secondario (amatoriale).

Ma è sempre vero che al professionismo corrisponde la qualità? La mia risposta è: non sempre. La maggior strutturazione e visibilità, la necessità di guadagno, e, insomma, il bisogno di mantenere un profilo abbastanza alto possono spingere le compagnie professionistiche ad andare incontro ai gusti del pubblico, riducendo il proprio livello di autonomia artistica a favore di una maggiore vendibilità degli spettacoli prodotti. E ad obbedire al diktat di riempire la sala ogni sera.

Il teatro amatoriale non ha questo problema. Certo, anche i piccoli spazi devono sopravvivere economicamente, ma le diverse norme e i diversi costi di gestione lasciano agli amatori più libertà d’azione. Inoltre, la consapevolezza di un minor risalto sulla scena pubblica fa sì che i gruppi amatoriali si sentano meno in dovere di andare incontro ai gusti del pubblico, e che si sentano quindi liberi di seguire una linea qualitativa e contenutistica propria. L’organica situazione di precarietà dei teatri che gestiscono, poi, spinge gli amatori ad essere sempre alla ricerca di nuovi percorsi, al contrario dei professionisti che spesso prediligono la sicurezza di un terreno già battuto.

Risulta chiara quindi l’importanza del teatro amatoriale in termini di apporto sia quantitativo, ma soprattutto qualitativo, alla scena nazionale.

Che il teatro amatoriale possa ribaltare le sorti del teatro professionistico?

È possibile che ora, in un periodo di grave crisi per il teatro italiano ci sia bisogno dell’apporto culturale dei gruppi amatoriali, che, anche grazie alle loro debolezze, hanno la possibilità di mettersi in gioco e di rifondare un sistema ormai destinato ad implodere sotto il peso della burocrazia.

Per dirla con le parole di Grotowski:

Da dove può venire il rinnovamento? Da gente scontenta della situazione del teatro normale e che si assuma il compito di creare teatri poveri con pochi attori, “compagnie da camera” […] oppure da dilettanti che lavorando al margine del teatro professionista, da autodidatti siano arrivati ad uno standard tecnico di gran lunga superiore a quello richiesto nel teatro dominante; in una parola, pochi matti che non abbiano niente da perdere e che non temano di lavorare sodo.

Ed è proprio di questo che il teatro italiano ha bisogno: di qualche matto che abbia il coraggio di costruire sulle rovine.