Il teatro della crudeltà

Il teatro della crudeltà

“Dichiaratamente o no, consciamente o no, ciò che in fondo il pubblico cerca nell’amore, nel delitto, nelle droghe, nella guerra o nell’insurrezione è uno stato poetico, una trascendente esperienza vitale” (Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio)

La Crudeltà a Teatro è un concetto fondamentale quando si parla di Artaud.

Egli ha continuato a sviluppare questa teoria per buona arte della sua vita, a partire dai primi anni ’30 fino alla morte, nel 1948. Il suo Teatro della Crudeltà – così viene definito – si può dividere il due fasi: il Primo Teatro della Crudeltà, sviluppatosi negli anni ’30 e il Secondo Teatro della Crudeltà, teorizzato in seguito alla reclusione presso due ospedali psichiatrici, prima a Parigi e in seguito a Rodez.

Ho scelto di soffermarmi qui sul Secondo Teatro della Crudeltà, in quanto ritengo che in questa seconda fase Artaud abbia raggiunto livelli di consapevolezza estremamente alti e complessi, sul teatro e su sé stesso, che sarebbe utile riprodurre anche nel teatro contemporaneo.

Come nel caso del Primo Teatro della Crudeltà, anche in questo secondo momento Artaud scrive e pubblica un Manifesto, nel quale descrive i suoi obiettivi, i suoi progetti, parla dei mezzi e delle modalità che vorrebbe utilizzare, dei risultati cui vorrebbe giungere.

Il tutto senza risparmiare un’acuta critica al teatro e alla società del suo tempo.

Ciò che muove Artaud nella teorizzazione di questo Secondo Teatro della Crudeltà sono primariamente le esperienze di cui è stato vittima durante i 9 anni di internamento. In particolare, egli si è convinto dell’esistenza di un complotto mondiale ordito contro di lui e che aveva causato il suo ingiustificato internamento. Ancora più che in altri suoi lavori, in questo Manifesto Artaud esprime il bisogno di una rifondazione del teatro su basi nuove e che tuttavia guardino al passato, all’autenticità ormai andata perduta di un teatro che sta scomparendo sotto il peso del cinematografo e delle nuove tecnologie.

Il Manifesto artaudiano è diviso in due parti distinte: la prima relativa al contenuto, la seconda relativa alla forma.

In questo saggio Artaud descrive la cifra stilistica del suo lavoro: quello che vuole creare è un teatro che si occupi della contemporaneità, dei problemi degli uomini e delle donne del suo tempo, un teatro che possa curare le anime e i corpi, ma al tempo stesso che per fare ciò non usi i mezzi propri del suo tempo ma guardi a mezzi antichi, presi dalle culture orientali ancora legate a tradizioni quasi ancestrali.

Questa tecnica dovrebbe, secondo Artaud, permettere alla cultura teatrale di non scomparire sotto la sempre maggiore forza dei nuovi media.

Un tema molto caro ad Artaud e che viene qui ripreso è l’uso della parola a teatro e la funzione che essa ha o può avere. In particolare, la critica che Artaud muove al teatro del suo tempo è quella di basarsi troppo sulla parola, di renderla l’unica e vera protagonista e di lasciare in disparte tutto il resto. Artaud, pur essendo convinto dell’importanza di testo e parola a teatro, teorizza una forma spettacolare basata più su ciò che fisicamente avviene in scena, sulla presenza degli attori, sulla loro espressività, su ciò che il pubblico vede e percepisce.

La parola in questo modo non è più il punto cardine dello spettacolo, ma diventa un mezzo, al pari di luci e movimenti.

Artaud inoltre teorizza la creazione di spettacoli in cui non vi sia alcun tipo di divisione tra attori e pubblico. Lo spettacolo, secondo Artaud, dovrebbe svilupparsi non davanti agli spettatori, ma in mezzo a questi. Per questo scopo egli teorizza la scomparsa della scena come veniva concepita allora: non più palcoscenico, non più costumi, non più scenografia, ma solo presenza: presenza di attori che si muovono in mezzo al pubblico, presenza di luci e suoni in grado di veicolare i sentimenti dagli e agli spettatori, presenza infine degli spettatori stessi che, accerchiati dallo spettacolo, entrano a farne parte al pari degli attori e delle luci, vivendo quasi un’esperienza mistica, o, in ogni modo, totalizzante.

Un teatro, quello teorizzato da Artaud, che abbia la capacità di

“rendere attuali gli antichi conflitti”.

Un teatro che diventa cura attraverso la presenza e la partecipazione emotiva degli spettatori, che sono qui chiamati a sentire lo spettacolo a cui partecipano. Il loro sarà non una partecipazione asfittica, mediata da una quarta parete, ma una partecipazione vera, reale, autentica, che gli lasci qualcosa, che arrivi a cambiarli, a modificare ciò che sono e il loro modo di vedere e approcciarsi al mondo.

Un teatro insomma che non sia spettacolo, ma cura. Cura per il singolo così come per il gruppo; per l’attore così come per lo spettatore o il regista.

Un teatro, infine, in grado di rifondare quella stessa società di cui fa parte in modo da poter contrastare le nuove malattie dello spirito e del corpo divenute ormai epidemiche.

Ritengo che la nuova necessità manifestata da Artaud di creare un teatro utile ed efficace sia nata primariamente dai suoi stessi bisogni, dal suo volersi curare e dal suo aver trovato una cura in quello stesso teatro con cui aveva avuto un rapporto estremamente conflittuale per tutta la vita.

“Così composto e così costruito, lo spettacolo, grazie alla soppressione della scena, si estenderà alla sala intera del teatro, e, partito dal suolo, si arrampicherà sui muri mediante leggere passerelle, avvolgerà fisicamente lo spettatore, lo terrà in un’atmosfera ininterrotta di luce, di immagini, di movimenti e di rumori. La scena sarà costituita dai personaggi stessi, cresciuti sino alle dimensioni di giganteschi fantocci, e da paesaggi di luci mobili, agenti su oggetti e maschere in continuo spostamento” (Artaud, Il Teatro e il suo doppio)