Il Manifesto culturale di Ivrea

In una situazione di progressiva involuzione, estesa a molti settori chiave della vita nazionale, in questi anni si è assistito all’inaridimento della vita teatrale, resa ancora più grave e subdola dall’attuale stato di apparente floridezza” (Manifesto per la convocazione del Convegno di Ivrea)

Sono parole di grande attualità quelle che aprono il Manifesto per la convocazione del Convegno di Ivrea. E viene da chiedersi perché lo siano ancora quando il Manifesto è stato scritto e pubblicato nel 1966.

La pubblicazione di questo Manifesto ha causato una profonda cesura nella cultura teatrale italiana, e questo per diversi motivi. Primo fra tutti, l’anno. Un anno drammaticamente vicino a quel ’68 che si è fatto mietitore di tutte le ideologie prima considerate ufficiali. Un anno che ha affermato principi nuovi in politica, società e cultura. Un manifesto che quindi sembrerebbe anticipare i movimenti sessantottini.

In realtà il Manifesto non sposa in toto le politiche che avrebbero mosso, pochi mesi dopo, le grandi rivolte del ’68. Il nuovo teatro che viene qui formulato si discosta allo stesso modo e con grande energia da quel teatro soffocato dalla burocrazia che stava diventando il teatro italiano. La visione ampia del comitato di redazione del Manifesto non guardava più alla realtà italiana, ormai sempre più avulsa dalla vita sociale del Paese, ma guardava alle grandi esperienze nate all’estero in quegli stessi anni, in Europa e non solo. I “modelli” di riferimento di questo nuovo teatro diventano quindi il Teatro Laboratorio di Grotowski, l’Odin Teatret di Barba, il Living Theatre di Beck e Malina, per citarne alcuni.

Non c’è nuova strada nel teatro come in ogni altra attività dell’arte e della scienza che non implichi di necessità estesi margini di errore. Noi li rivendichiamo. Non vogliamo dar vita a un teatro clandestino per pochi iniziati, né rimanere esclusi dalle possibilità offerte dalle organizzazioni di pubblico alle quali riteniamo di avere diritto; rifiutiamo però un’attività ufficialmente definita come sperimentale, ma costretta ad allinearsi alle posizioni dominanti” (Manifesto per la convocazione del Convegno di Ivrea)

L’obiettivo che i firmatari del Manifesto si prefiggono è stilare un programma basato sulla realtà dei fatti e a quello attenersi per cercare, collaborando, una situazione a quei problemi che sono stati posti.

In una società ormai non più educata all’errore, in cui questo viene considerato solo come qualcosa da evitare a ogni costo, ritengo che il “rivendicare i margini di errore” sia un messaggio importante da parte di un gruppo che non si presenta da subito con delle risposte, semmai si fa conoscere attraverso delle domande e coinvolge altri per poter arrivare alle risposte.

Il secondo motivo che rende questo Manifesto un unicum nella letteratura italiana sono gli autori: non un individuo o un ristretto numero di uomini di teatro, ma un nutrito gruppo di intellettuali “trasversali”. Tra essi si possono vedere i nomi di uomini di teatro, ma anche giornalisti, critici, scenografi, compositori, registi, solo per citarne alcuni in modo da rendere l’idea della vastità delle competenze degli appartenenti al gruppo. La cooperazione tra questi professionisti della cultura ha prodotto un testo estremamente semplice, immediato, efficace e al contempo di grande profondità che centra il bersaglio ed è in grado di mostrare tutti i punti deboli della realtà teatrale italiana.

Al di sopra di ogni diversità pensiamo però di poter individuare una sufficiente forza di coesione nel trovarci comunque di fronte a problemi di lavoro fondamentalmente analoghi” (Manifesto per la convocazione del Convegno di Ivrea)

Un altro aspetto di questo lavoro che ritengo fondamentale è la consapevolezza della forza che risiede nella diversità: in questo caso – come credo in pochi altri – il fatto di essere un gruppo eterogeneo non è motivo di frammentazione, ma di forza. Tutti questi uomini di cultura – pur essendo ognuno un maestro nel proprio campo – si dicono disposti a lasciare da parte il ruolo da protagonista per mettersi tutti al servizio di una ricerca comune. Non c’è la volontà di un modo di vedere di prevalere sull’altro, semmai la volontà di mettere insieme esperienze e punti di vista per poter arrivare a una conclusione che soddisfi tutti. La consapevolezza di queste differenze è qui portata come vanto, come simbolo di ricchezza e come caratteristica fondante del lavoro che si deve svolgere. Non più quindi una divisione in settori soffocante per chi lavora e per chi osserva il risultato, ma un’armonia di intenti capaci di ritrasmettersi all’ideazione, allo sviluppo e al risultato.

Penso che dovrebbe colpire il fatto che queste pagine scritte nel 1966 siano ancora così attuali al giorno d’oggi. Ciò di cui gli autori parlano sono idee che non siamo stati in grado di raccogliere e di portare a compimento, ma al contempo sono anche un punto da cui si può ripartire. Il teatro italiano ha ancora bisogno di cambiare, di “svecchiarsi”, di essere più al passo coi tempi di quanto non sia ora.

Ritengo che oggi ci sia bisogno di un teatro nuovo, che abbia realmente qualcosa da dire, un teatro che sia frutto di collaborazione e non di settorialismi. Un teatro infine che sia in grado di ritrovare la sua forza originaria e da lì ripartire per costruire la sua nuova realtà.

Crediamo invece che ci si possa servire del teatro per insinuare dei dubbi, per rompere delle prospettive, per togliere delle maschere, mettere in moto qualche pensiero. Crediamo in un teatro pieno d’interrogativi, di dimostrazioni giuste o sbagliate, di gesti contemporanei” (Manifesto per la convocazione del Convegno di Ivrea)

I firmatari di questo Manifesto sono, in ordine alfabetico: Corrado Augias, Giuseppe Bartolucci, Marco Bellocchio, Carmelo Bene, Cathy Berberian, Sylvano Busotti, Antonio Calenda e Virginio Gazzolo, Ettore Capriolo, Liliana Cavani, Leo De Berardinis, Massimo De Vita e Nuccio Ambrosino, Edoardo Fadini, Roberto Guicciardini, Roberto Lerici, Sergio Liberovici, Emanuele Luzzati, Franco Nonnis, Franco Quadri, Carlo Quartucci e il Teatrogruppo, Luca Ronconi, Giuliano Scabia, Aldo Trionfo.